Gli attacchi condotti nel cuore di Parigi da un commando di miliziani dell’IS (Islamic State) la sera del 13 novembre 2015 hanno scosso l’opinione pubblica e la politica francese ed europea. Le ragioni di questo shock sono molte: dall’ampiezza dell’operazione, alla sua tipologia, dal numero di morti, al pericolo rappresentato dai foreign fighters e dagli immigrati clandestini. Ciò però che qui ci preme sottolineare è il contesto strategico più generale, ovvero la crescente rilevanza dello scenario urbano nei conflitti moderni.
Sugli attacchi di Parigi si è scritto tutto e il suo contrario, anche tra gli esperti militari non mancano interpretazioni contrastanti. Ad esempio David Kilcullen, un ufficiale australiano studioso dell’insorgenza moderna, nonché collaboratore del generale David Petraeus in Iraq, sottolinea l’efficienza e l’organizzazione degli attacchi di Parigi. Attacchi che hanno efficacemente sfruttato lo spazio urbano parigino per colpire obiettivi simbolici a forte effetto mediatico, realizzare tattiche diversive e creare una situazione di instabilità e incertezza a livello internazionale. Altri autori mettono invece in luce come attaccare soft target indifesi come bar o sale concerto non sia sinonimo di efficienza militare.
Sicuramente, il commando dell’IS ha dimostrato di avere l’addestramento, l’organizzazione e il coordinamento per colpire quasi simultaneamente tre diverse zone della città (nei pressi dello stadio, nei caffè e al Bataclan), per procurarsi le armi e il materiale per le cinture esplosive (strumenti che richiedono anche personale competente per assemblarle) e per nascondere alcuni dei responsabili dell’azione, come dimostrano i casi di Salah Abdeslam e di Abdelhamid Abaaoud. Anche se ha poi fallito l’obiettivo di penetrare nello Stade de France, in quanto protetto dalla polizia e dai minuziosi controlli resisi necessari per la presenza nello stadio del Presidente Hollande.
Il tema della “professionalità” dei miliziani, d’altro canto, potrebbe non essere nemmeno così centrale per comprendere i fatti di Parigi. Quello che è invece peculiare è la loro ‘ambientazione urbana’. Se si impiega una prospettiva storica, infatti, l’attacco del 13 novembre rappresenta l’ultimo esempio della tendenza ad operare sempre più all’interno delle grandi metropoli da parte dei combattenti irregolari. Dal punto di vista accademico e militare è dagli anni ’90 che si discute e si analizza il tema dell’urban warfare, (ovvero i combattimenti in ambito urbano) e sono svariati gli esempi che si possono fare a partire dalla fine della Guerra fredda. Una delle più famose, non fosse altro per la sua trasposizione cinematografica con il film Black Hawk Down di Ridley Scott, è la debacle dei Ranger americani a Mogadiscio in Somalia nel 1993. Molto impresse nell’immaginario collettivo e molto più sanguinose sono le operazioni di assedio e pulizia etnica nella ex-Jugoslavia, la devastazione di Groznyi durante le guerre cecene, l’operazione americana a Falluja in Iraq nel 2004.
Certamente si tratta di contesti politici e militari molto diversi. Ma queste e altre battaglie mostrano il rafforzamento di una tendenza di lungo corso. Tornando a Parigi, si potrebbe obiettare che rappresentano anche situazioni tattico-strategiche del tutto diverse rispetto a ciò che abbiamo osservato. Ciò è però solo in parte vero. Da un lato perché si tratta sempre di operazioni portate avanti da gruppi di combattenti irregolari (che poi possono utilizzare l’esperienza maturata in altri contesti). Dall’altro lato perché si riscontra la stessa crescente incidenza dello spazio densamente urbanizzato come teatro dei conflitti contemporanei, che ritroviamo anche: nell’attacco alla stazione dei treni di Madrid dell’11 marzo 2004 che ha causato 191 morti; in quello a Londra del 7 luglio del 2005 con 56 morti; nella complessa operazione portata a termine a Mumbai nel 2008 con 195 vittime. Per non parlare poi dei più recenti attacchi al Museo del Bardo a Tunisi, contro la redazione parigina di Charlie Hebdo, presso il museo ebraico a Bruxelles e altri di minore entità. La centralità dell’ambientazione urbana è poi anche presente in situazioni belliche più complesse, dove azioni del tutto similari avvengono molto più di frequente. Ne è un esempio il recente attacco all’ambasciata spagnola a Kabul, così come gli attacchi nelle città turche o quelli ben più frequenti a Baghdad, che è sì la capitale di uno stato in guerra, ma è anche una città che non si trova né sulla linea del fronte né in una situazione di contesa tra due fazioni, come è, invece, il caso di Ramadi o di alcune città libiche o siriane.
La maggiore incidenza dei conflitti nei centri urbani è una conseguenza della diversa tipologia di guerra contemporanea, ovvero conflitti tra gruppi di miliziani irregolari, più o meno addestrati e armati, che si scontrano fra di loro o contro un esercito o, ancora, contro le forze di sicurezza di uno stato. I miliziani irregolari privilegiano il terreno urbano perché gli edifici e le vie di comunicazione sotterranee (fogne, tunnel della metropolitana, cunicoli vari) offrono una serie infinita di modalità d’attacco e vie di fuga, mentre complicano notevolmente i movimenti delle forze regolari (polizia, esercito, squadre speciali). Lo spazio urbano riesce quindi a riequilibrare la disparità di forze (in termini sia di armamento che di addestramento) esistente tra i miliziani e le forze regolari, offrendo ai primi punti di attacco, sorpresa e elementi difensivi, e limitando al contempo le capacità operative dei secondi. La presenza poi di civili è un elemento essenziale per comprendere le operazioni urbane. Da un lato, l’esistenza di comunità di simpatizzanti permette ai miliziani di “mimetizzarsi” e di “sparire” oltre che di trovare appoggio logistico nella fase di preparazione dell’attacco (quando anche reti criminali possono giocare un ruolo cruciale). Dall’altro lato, i civili non solo diventano facili bersagli, ma costringono le forze di sicurezza a utilizzare modalità di impiego della forza che riducano il rischio per la popolazione, rallentando e rendendo più complesso l’intervento stesso.
Lo spazio urbano è poi un elemento chiave della tattica terroristica. Il riferimento alla tattica è centrale perché i miliziani che hanno operato a Parigi hanno sì utilizzato tattiche tipicamente terroristiche, ma sono anche membri di un’organizzazione, l’IS, che controlla risorse e territorio e ha quindi elementi tipici della guerriglia o dell’insorgenza. Si potrebbe quindi parlare di guerriglia urbana come già la si era teorizzata in passato. La tattica terroristica prevede attacchi rapidi, condotti da gruppi di pochi uomini, o anche di uno solo, contro obiettivi sensibili, ma poco protetti.
Un elemento cardine della tattica terroristica è certamente quello di creare terrore e a tal fine lo spazio urbano è centrale. Per prima cosa, e soprattutto con il terrorismo moderno, la presenza di numerosi civili permette di compiere attacchi con un alto numero di vittime, il che semplifica anche l’obiettivo di creare terrore. Secondariamente, con tali azioni urbane è facile ottenere un’ampia copertura mediatica. Ciò rappresenta uno dei principali obiettivi di chi compie tali azioni sia perché i media consentono di “pubblicizzare” la visione politica del gruppo sia perché permettono di ampliare notevolmente l’effetto immediato dell’azione e raggiungere, attraverso le immagini, anche chi non è stato direttamente coinvolto nell’attacco. In città tale copertura mediatica è assicurata non solo grazie ai canali all news satellitari, ma anche grazie alla presenza capillare di smartphone in grado di riprendere e trasmettere gli eventi in tempo reale e alle numerose videocamere di sorveglianza (pubbliche o private che siano).
La maggiore facilità di documentazione può influenzare gli attacchi in ambito urbano in due modi. Primo, IS ci ha purtroppo abituato a molti video “di propaganda” in cui mostra le sue capacità operative, vere o presunte che siano. Per gli attacchi in città occidentali questa funzione è demandata alla copertura dei media (spesso però ormai tenuti a distanza dall’azione) e, soprattutto, alla diffusione nei giorni successivi delle testimonianze video e fotografiche acquisite dai cittadini. Secondo, la presenza di videocamere di sorveglianza permette di migliorare il lavoro investigativo seguente a un attacco (visionando i video per identificare eventuali collaboratori, basisti, mezzi utilizzati) o di intelligence preventiva. Nelle metropoli e nei grandi centri urbani occidentali, dove gli obiettivi possibili e le modalità di attacco sono numerosissimi, restano però uno strumento di difesa inefficace vista l’enorme mole di materiale che registrano (e il tempo necessario per analizzarlo).
La minaccia in Italia come in tutta Europa è dunque forte e concreta anche perché, con il ritorno in patria dei foreign fighters, la presenza di individui addestrati o quantomeno abituati a usare armi e a vivere situazioni di conflitto urbano è in crescita.
La difesa totale, come ha anche più volte ricordato il ministro Alfano, non è assolutamente possibile per cui servono misure sia immediate sia di più lungo periodo. Tra queste ultime va ricordato un piano complessivo per contenere ed eradicare definitivamente l’IS e gruppi similari. Sul breve termine, invece, intercettazioni (e in generale una buona intelligence), arresti mirati e capillari azioni di controllo sul territorio sono gli strumenti migliori. Ne sanno qualcosa i pellegrini per il Giubileo che, per accedere a piazza San Pietro a Roma, sono stati sottoposti a lunghe perquisizioni e controlli con metal detector. L’Italia non è ancora stata oggetto di attacchi, ma ciò non significa che sia fuori pericolo. Anzi, il nostro paese è ricco di possibili obiettivi ad alto valore simbolico: il giubileo così come la stessa città di Roma più volte citata in comunicati ufficiali dell’IS; le altre città d’arte ricche di simboli religiosi e non solo; l’organizzazione di eventi di grande richiamo come la finale di Champions League che nella primavera si svolgerà a Milano. L’aver superato con successo, almeno dal punto di vista della sicurezza, la prova di Expo e, in anni passati, quella delle olimpiadi invernali di Torino 2006 non è purtroppo una garanzia per future manifestazioni.
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