2. L’uso politico del verbo “occupy” è talmente desueto che lascia la parola oscillare fra l’occupazione di un luogo, per quanto simbolico, e il dare a Wall Street, alla finanza, qualcosa “da fare”. Che si “occupino” di qualcosa di serio, per una volta. O “che si trovino una occupazione che abbia a che vedere con la gente comune”, o qualcosa di simile. È infatti opinione di chi partecipa a questo movimento che la finanza abbia da tempo smesso di “occuparsi” di qualcosa, che non sia più una forma propria di lavoro, ma che sia pura speculazione sul lavoro altrui. Quindi il motivo della protesta, che si manifesta nell’occupazione di suolo pubblico, è quello di manifestare contro questa “disoccupazione” della finanza, che porta alla “disoccupazione” reale di milioni di lavoratori.
Occupando spazio concreto per occupare spazio simbolico questo movimento compie un altro gesto, il cui significato rischia di perdersi con la nostra assuefazione ai rituali sbiaditi dell’occupazione permanente.
3. È dalla caduta del Muro di Berlino, e quindi alla fine della Guerra Fredda, che la natura dello spazio politico, dello spazio in quanto tale, è diventato un problema. È diventato un problema per la geopolitica ma anche per la stessa definizione di politica. Secondo la consolidata letteratura, finita l’epoca degli stati-nazione è iniziata un’epoca nuova, quella della globalizzazione.
A parere di alcuni, questa epoca è caratterizzata dallo scatenarsi delle forze di libero mercato che trovano nella finanza la loro punta di lancia. Altri vedono nella fine degli stati-nazione un’opportunità per resistere se non rovesciare il capitalismo. Solo un pugno di inguaribili liberali classici credono alla sovranità popolare e al primato riformatore dello stato-nazione.
Ma chi è sovrano oggi? Il popolo di una nazione? L’apparato burocratico degli stati? L’apparato tecnologico che governa gli scambi finanziari in tempo reale? Le élite tecnocratiche che governano le istituzioni transnazionali?
Secondo molti teorici della politica, sovrano è ancora colui che governa lo stato d’eccezione (una mirabile definizione, coniata dal filosofo del diritto Carl Schmitt). Ovvero, è lì dove si manifesta l’arbitrio della violenza estrema del potere che si disvela il vero volto del sovrano contemporaneo. È dunque nei campi di concentramento vecchi e nuovi, in cui il filosofo Giorgio Agamben localizza l’impronta mobile di un potere vacuo quanto violento.
Siamo tutti governati da forze che agiscono al di sopra e al di là della sovranità popolare. L’epoca democratica è finita, se è mai esistita, e siamo è già in un nuovo mondo totalitario. Il campo di sterminio si è sublimato localizzandosi ovunque vi sia esclusione sociale. Oggi è la vita stessa che viene amministrata come se non avesse valore alcuno, se non quello relativo dettato dalla contingenza degli squilibri di potere. Se la diagnosi è corretta - e se il potere non si localizza più nel corpo mistico secolarizzato del popolo sovrano, ma si è diffuso ovunque in quella che il filosofo francese Michel Foucault chiamava la microfisica del potere - come opporre noi stessi al potere? In altre parole, se il potere è ovunque e in ogni luogo, dove sfidarlo in campo aperto?
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