4. L’idea di occupare fisicamente uno spazio concreto - Wall Street - per occupare uno spazio fin troppo simbolico - la finanza globalizzata - è figlia di questa difficoltà di localizzare il potere che caratterizza il pensiero politico contemporaneo. Si tratta, com’è ovvio, di un atto di resistenza al processo che sottrae potere al popolo per consegnarlo nelle mani inoperose della finanza internazionale.
Detto questo, che dire del problema che questo movimento pone alla rielezione di Barack Obama? Ha senso dire che per essere rieletto il Presidente dovrebbe intercettare il voto di questo movimento d’opinione? Il problema è dato dal fatto che Obama rappresenta alla perfezione il liberale pragmatico che crede nella sovranità popolare e nel primato riformatore dello stato-nazione.
Pensare che chi “occupa” Wall Street possa essere indotto a votare per Barack Obama è non avere letto neppure le copertine dei libri che ispirano il movimento. Eppure sarebbe anche arrivato il momento per i liberali pragmatici alla Barack Obama di ripensare il ruolo dello stato-nazione nell’epoca della globalizzazione. Qualcosa non va nel mondo della finanza, è un fatto palmare. L’idea di restringerne l’azione riformatrice allo stato-nazione non è più proponibile se non si regredisce fino al ritorno di una nuova guerra che sia l’equivalente della Guerra Fredda. Il tentativo di usare la Guerra Globale al Terrore per giungere a un nuovo Congresso di Vienna, reazionario e regressivo nei confronti della globalizzazione, è fallito, com’era ovvio che fallisse.
Se i liberali non vogliono di nuovo mettere la testa sotto la sabbia e negare l’evidenza che qualche problema di stato la deregulation della finanza ha portato, debbono uscire dalla Casa Bianca ed occuparsi un po’ di Occupa Wall Street. Un’alleanza è possibile, ma al momento risulta tutta da costruire. I liberali non hanno letto molta della letteratura prodotta dai pensatori politici più radicali (spesso disgustati dal fatto che il loro nume tutelare, Carl Schmitt, eresse l’infrastruttura giuridica della Germania nazista). Ma qualche colpa ce l’ha pure chi protesta secondo modi e maniere che riportano alla mente gli anni Sessanta.
In mezzo a tutta questa confusione c’è del nuovo e del buono. Siamo comunque ben lontani dal capire che cosa sia diventato lo spazio politico nell’epoca che è iniziata con la fine della Guerra Fredda. Forse una soluzione potrebbe venire dall’elaborazione teorica dei cosiddetti “commons”, i “beni comuni”, un cuneo concettuale che si infila nella dicotomia fra beni pubblici e privati, sovvertendola. Ciò che rende digeribile la categoria dei beni comuni ai liberali è che comunque si tratta di un qualcosa che può essere introdotto con norme giuridiche e che avrebbe comunque una valenza limitata ad alcuni beni specifici come l’acqua, l’aria, o la conoscenza, che in effetti è bene non privatizzare. Se così fosse, la strada sarebbe comunque tutta da costruire, soprattutto se l’obiettivo da raggiungere è la vittoria nel 2012.
Obama rischia molto se non riesce ad intercettare questo movimento, molto più esteso delle singole frange che “occupano” Wall Street. Come molto rischia l’opinione che si manifesta attraverso il movimento. Se dovessero ritornare i Repubblicani al potere, certamente per loro non sarebbe primavera.
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