1. Robert Frost sostenne, in una celebre massima, che la poesia è quella cosa che si perde con la traduzione. Intendeva dire che il senso delle parole è solo un elemento della poesia, il meno importante. Ciò che conta, nel canto del poeta, è il canto, ovvero la potenza sonora del linguaggio, quello che la critica letteraria chiama l’eufonia del discorso.

C’è però un’altra cosa che si perde nella traduzione: l’abitudine ad una certa frase, ad un certo giro di parole. Ciò che per abitudine suona bene in una certa lingua, suona malissimo in un’altra, quasi avesse un altro significato. Prendiamo “Occupy Wall Street”, il movimento di protesta che negli Stati Uniti occupa spazi pubblici per richiamare l’attenzione sulle disfunzioni dell’economia di mercato. Se lo traduciamo dall’inglese all’italiano otteniamo “occupa Wall Street”, dove “Wall Street” è chiaramente il simbolo della finanza americana.

All’orecchio italiano la parola “occupa” suona bene, o per meglio dire non percepiamo nulla di strano nel suo uso. L’occupazione di scuole e fabbriche in Italia prende ritmi quasi stagionali. Chi non ha partecipato/subito almeno una occupazione nel suo percorso formativo? Quello che si perde con la traduzione è il carattere desueto di questo uso della parola “occupy”. Il mio amico Paul Romano mi dice che era dai tempi delle occupazioni studentesche degli anni Sessanta che non la si sentiva più usare (e Paul vive a San Francisco e ha passato gli anni Novanta a studiare teoria politica a Berkeley, quindi è attendibile come parlante di riferimento). Della locuzione “Occupy Wall Street” all’orecchio italiano sfugge l’eco un po’ vintage della parola; un elemento non da poco se si intende cogliere il senso del nome, oltre che la natura e il carattere del movimento. 


2. L’uso politico del verbo “occupy” è talmente desueto che lascia la parola oscillare fra l’occupazione di un luogo, per quanto simbolico, e il dare a Wall Street, alla finanza, qualcosa “da fare”. Che si “occupino” di qualcosa di serio, per una volta. O “che si trovino una occupazione che abbia a che vedere con la gente comune”, o qualcosa di simile. È infatti opinione di chi partecipa a questo movimento che la finanza abbia da tempo smesso di “occuparsi” di qualcosa, che non sia più una forma propria di lavoro, ma che sia pura speculazione sul lavoro altrui. Quindi il motivo della protesta, che si manifesta nell’occupazione di suolo pubblico, è quello di manifestare contro questa “disoccupazione” della finanza, che porta alla “disoccupazione” reale di milioni di lavoratori.

Occupando spazio concreto per occupare spazio simbolico questo movimento compie un altro gesto, il cui significato rischia di perdersi con la nostra assuefazione ai rituali sbiaditi dell’occupazione permanente.

3. È dalla caduta del Muro di Berlino, e quindi alla fine della Guerra Fredda, che la natura dello spazio politico, dello spazio in quanto tale, è diventato un problema. È diventato un problema per la geopolitica ma anche per la stessa definizione di politica. Secondo la consolidata letteratura, finita l’epoca degli stati-nazione è iniziata un’epoca nuova, quella della globalizzazione.

A parere di alcuni, questa epoca è caratterizzata dallo scatenarsi delle forze di libero mercato che trovano nella finanza la loro punta di lancia. Altri vedono nella fine degli stati-nazione un’opportunità per resistere se non rovesciare il capitalismo. Solo un pugno di inguaribili liberali classici credono alla sovranità popolare e al primato riformatore dello stato-nazione.

Ma chi è sovrano oggi? Il popolo di una nazione? L’apparato burocratico degli stati? L’apparato tecnologico che governa gli scambi finanziari in tempo reale? Le élite tecnocratiche che governano le istituzioni transnazionali?

Secondo molti teorici della politica, sovrano è ancora colui che governa lo stato d’eccezione (una mirabile definizione, coniata dal filosofo del diritto Carl Schmitt). Ovvero, è lì dove si manifesta l’arbitrio della violenza estrema del potere che si disvela il vero volto del sovrano contemporaneo. È dunque nei campi di concentramento vecchi e nuovi, in cui il filosofo Giorgio Agamben localizza l’impronta mobile di un potere vacuo quanto violento.

Siamo tutti governati da forze che agiscono al di sopra e al di là della sovranità popolare. L’epoca democratica è finita, se è mai esistita, e siamo è già in un nuovo mondo totalitario. Il campo di sterminio si è sublimato localizzandosi ovunque vi sia esclusione sociale. Oggi è la vita stessa che viene amministrata come se non avesse valore alcuno, se non quello relativo dettato dalla contingenza degli squilibri di potere. Se la diagnosi è corretta - e se il potere non si localizza più nel corpo mistico secolarizzato del popolo sovrano, ma si è diffuso ovunque in quella che il filosofo francese Michel Foucault chiamava la microfisica del potere - come opporre noi stessi al potere? In altre parole, se il potere è ovunque e in ogni luogo, dove sfidarlo in campo aperto?


4. L’idea di occupare fisicamente uno spazio concreto - Wall Street - per occupare uno spazio fin troppo simbolico - la finanza globalizzata - è figlia di questa difficoltà di localizzare il potere che caratterizza il pensiero politico contemporaneo. Si tratta, com’è ovvio, di un atto di resistenza al processo che sottrae potere al popolo per consegnarlo nelle mani inoperose della finanza internazionale.

Detto questo, che dire del problema che questo movimento pone alla rielezione di Barack Obama? Ha senso dire che per essere rieletto il Presidente dovrebbe intercettare il voto di questo movimento d’opinione? Il problema è dato dal fatto che Obama rappresenta alla perfezione il liberale pragmatico che crede nella sovranità popolare e nel primato riformatore dello stato-nazione.

Pensare che chi “occupa” Wall Street possa essere indotto a votare per Barack Obama è non avere letto neppure le copertine dei libri che ispirano il movimento. Eppure sarebbe anche arrivato il momento per i liberali pragmatici alla Barack Obama di ripensare il ruolo dello stato-nazione nell’epoca della globalizzazione. Qualcosa non va nel mondo della finanza, è un fatto palmare. L’idea di restringerne l’azione riformatrice allo stato-nazione non è più proponibile se non si regredisce fino al ritorno di una nuova guerra che sia l’equivalente della Guerra Fredda. Il tentativo di usare la Guerra Globale al Terrore per giungere a un nuovo Congresso di Vienna, reazionario e regressivo nei confronti della globalizzazione, è fallito, com’era ovvio che fallisse.

Se i liberali non vogliono di nuovo mettere la testa sotto la sabbia e negare l’evidenza che qualche problema di stato la deregulation della finanza ha portato, debbono uscire dalla Casa Bianca ed occuparsi un po’ di Occupa Wall Street. Un’alleanza è possibile, ma al momento risulta tutta da costruire. I liberali non hanno letto molta della letteratura prodotta dai pensatori politici più radicali (spesso disgustati dal fatto che il loro nume tutelare, Carl Schmitt, eresse l’infrastruttura giuridica della Germania nazista). Ma qualche colpa ce l’ha pure chi protesta secondo modi e maniere che riportano alla mente gli anni Sessanta.

In mezzo a tutta questa confusione c’è del nuovo e del buono. Siamo comunque ben lontani dal capire che cosa sia diventato lo spazio politico nell’epoca che è iniziata con la fine della Guerra Fredda. Forse una soluzione potrebbe venire dall’elaborazione teorica dei cosiddetti “commons”, i “beni comuni”, un cuneo concettuale che si infila nella dicotomia fra beni pubblici e privati, sovvertendola. Ciò che rende digeribile la categoria dei beni comuni ai liberali è che comunque si tratta di un qualcosa che può essere introdotto con norme giuridiche e che avrebbe comunque una valenza limitata ad alcuni beni specifici come l’acqua, l’aria, o la conoscenza, che in effetti è bene non privatizzare. Se così fosse, la strada sarebbe comunque tutta da costruire, soprattutto se l’obiettivo da raggiungere è la vittoria nel 2012.

Obama rischia molto se non riesce ad intercettare questo movimento, molto più esteso delle singole frange che “occupano” Wall Street. Come molto rischia l’opinione che si manifesta attraverso il movimento. Se dovessero ritornare i Repubblicani al potere, certamente per loro non sarebbe primavera.