Quello che accade in questa nuova fase della vita politica americana è di gran lunga più grave, e attesta il deterioramento della qualità e della preparazione dei candidati. Anche Herman Cain è inciampato rovinosamente. Interpellato a proposito della Libia, il candidato repubblicano è rimasto interdetto di fronte alla più semplice delle domande: “è d’accordo con il presidente Obama sulla Libia?”. Dopo alcuni lunghissimi secondi di silenzio, Cain ha risposto a sua volta con una domanda che la dice lunga sulla sua preparazione in tema di affari esteri: “il presidente Obama ha sostenuto le rivolte, corretto?”, per poi vacillare tra una risposta e l’altra, rimangiandosi più volte le proprie stesse affermazioni.
Così anche l’unico afroamericano in corsa, con alle spalle l’edificante storia personale di fatica e sacrifici – dalla famiglia povera e disagiata ma dai forti valori spirituali al vertice della catena Godfather’s Pizza, sorta di Booker T. Washington dei giorni nostri, il nero che interiorizza con diligenza la via americana al successo – si è visto costretto a rinunciare alla competizione. A macchiarne il curriculum, ci avevano già pensato le accuse di molestie sessuali rivoltegli da alcune ex dipendenti ai tempi in cui era AD della National Restaurant Association.
Gli altri, dall’ironico, acuto libertario Ron Paul, ai “giovani” Jon Huntsman e Rick Santorum, restano per ora attestati a percentuali più basse. Per tacere della candidata più strettamente identificata col movimento Tea party, Michelle Bachmann, sorta di riedizione della Palin, con la medesima postura ultraconservatrice e populista.
Resta Mitt Romney. Cauto, elegante, di famiglia saldamente ancorata nell’establishment repubblicano, anche dopo quattro anni Romney ha la caratura più presidenziale di tutti. Figlio di George, politico-simbolo degli anni della rust belt e della grande industria automobilistica, già più volte candidato, ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney ha però un profilo ideologico incerto. Ha studiato all’estero, in Francia. Ha guidato lo stato più liberal d’America. è mormone. è più conservatore del padre (i tempi cambiano...), ma piace nel Nordest progressista e delle città. “Sure, he looks like a President”, titolava già nel 2007 Time. “But what does Mitt Romney really believe?”.
Una domanda che resta nell’aria – l’aria fredda e incerta di Washington a fine novembre – di queste primarie repubblicane già cominciate eppure ancora ai nastri di partenza.
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