“Ronald Reagan’s greatest challenge is to find a principle of statesmanship that can draw the support of a social movement without being imprisoned by it”, scriveva nel 1980 la rivista neoconservatrice “Commentary” nell’editoriale di appoggio al candidato repubblicano. Era un auspicio formulato da chi conosceva bene il Dna della destra americana, le sue forze e le sue debolezze.
Senza esagerazioni, si può affermare che a distanza di trent’anni il Grand Old Party sia alle prese con la medesima sfida, per il nutrito campo di candidati che si contendono la nomination contro il presidente in carica Obama. Tutti, indistintamente, si fanno alfieri di una diversa porzione dell’elettorato conservatore. A differenza del 1980, però, nessuno sembra finora aver raggiunto l’obiettivo di librarsi nei cieli della leadership e della statura presidenziale che, a dispetto delle critiche che gli si possono muovere, era un tratto peculiare di Reagan. Anzi, a undici mesi dall’elezione i candidati repubblicani alla Casa Bianca stanno inciampando in una serie di errori grossolani, che ne rivelano drammaticamente l’impreparazione e la mancanza di formazione politica.
Il partito repubblicano americano è uscito nel 2008 con la vittoria di Obama da una fase di grazia di lungo periodo, di successi elettorali ma soprattutto di capacità incisiva nell’agenda politica di un Paese intero. L’era di Reagan – definizione unanime di storici di orientamento a lui favorevole e critico – va ben al di là della scadenza del suo mandato presidenziale. E il clintonismo e il blairismo, speculari e contemporanei, visti retrospettivamente appaiono più come l’ultima propaggine del lungo decennio degli anni Ottanta che un fenomeno realmente nuovo. Clinton, in particolare, rimase sotto scacco fin dal suo secondo anno di mandato di un Congresso dove per la prima volta dal 1948 la maggioranza era in mano ai repubblicani in entrambe le camere.
L’artefice di quella che è stata chiamata la “Rivoluzione repubblicana” del 1994 (rivoluzione parlamentare, beninteso), il “perno” del sistema di allora fu colui che i sondaggi più recenti ora descrivono come il favorito nella corsa alla presidenza: Newt Gingrich. Uomo di apparato e di organizzazione, creatore del “Contratto con l’America” che allora permise la vittoria repubblicana (poi malamente imitato in Italia nel ‘96), uomo di lobby e di coalizioni, Gingrich ha la grinta e il conservatorismo viscerale di un Karl Rove – lo stratega elettorale di Bush Jr. – ma una maggiore articolazione carismatica. è presto per dire se sarà lui l’uomo chiamato a sfidare Obama, ma certo c’è chi si è preoccupato di spianargli la strada.
Si prenda Rick Perry. L’attuale governatore del Texas si è quasi bruciato la corsa alla presidenza. Nel lone star state non votano democratico da trentacinque anni, dal cruciale 1976. Allora, un candidato del profondo sud, il georgiano Jimmy Carter, con il suo accento lieve e molle, la retorica populista e ispirata, fu l’ultimo a conquistare al partito dell’asinello il grande stato americano al confine con il Messico.
Il Texas, Paese a fortissima immigrazione ispanica, Paese del ricorso generoso alla pena capitale, Paese dei petrolieri e dei condizionatori sparati a mille nel deserto rovente in barba al risparmio energetico, ha poi votato solidamente repubblicano. Tendenza conservatrice. Ma all’attuale governatore è riuscito un piccolo miracolo: farsi scavalcare da un afroamericano, Herman Cain, nel suo stesso terreno di battaglia. Si guardi la terrificante gaffe televisiva che ha infilato Perry nell’ultimo dibattito dei candidati. Nell’elencare “le tre agenzie federali che quando diventerò Presidente se ne devono andare”, è incorso in un vuoto di memoria che con sconcertante naïveté politica non ha saputo rimediare, appeso alla propria impreparazione come un qualsiasi studente liceale: “commercio, educazione, e... non ricordo. Hmm. Ops.”
“Ops” è diventata l’onomatopea di riferimento, l’avatar perfetto del governatore texano. Il capitombolo presidenziale di Perry, ultimo di una spirale implosiva che lo ha visto passare da grande promessa dell’area conservatrice a un probabile ritiro a breve, è solo uno dei molti incidenti nella corsa alla nomination del Grand Old Party.
Si comincia, insomma, a vedere un po’ di sangue nell’arena delle primarie. è bello e giusto che sia così, e c’è un momento, verso metà autunno, in cui ogni quattro anni questo accade. In una sorta di impietosa selezione darwiniana, a una a una, si estinguono le specie politiche, sui binari morti dell’evoluzione politica si fermano le speranze esauste e gli esperimenti abortiti. Come Ted Kennedy, che dopo aver cominciato una ruggente campagna contro Carter e nonostante la consumata abilità oratoria che gli veniva da anni di esperienza politica si trovò spiazzato di fronte al più semplice degli interrogativi: “perché lei vuole essere presidente?”. Rispose con esitazione e balbettanti mezze ragioni, si mise a parlare delle “grandi risorse naturali dell’America”, diede insomma l’impressione di non avere ben chiari i propri obiettivi e la propria vocazione.
Quello che accade in questa nuova fase della vita politica americana è di gran lunga più grave, e attesta il deterioramento della qualità e della preparazione dei candidati. Anche Herman Cain è inciampato rovinosamente. Interpellato a proposito della Libia, il candidato repubblicano è rimasto interdetto di fronte alla più semplice delle domande: “è d’accordo con il presidente Obama sulla Libia?”. Dopo alcuni lunghissimi secondi di silenzio, Cain ha risposto a sua volta con una domanda che la dice lunga sulla sua preparazione in tema di affari esteri: “il presidente Obama ha sostenuto le rivolte, corretto?”, per poi vacillare tra una risposta e l’altra, rimangiandosi più volte le proprie stesse affermazioni.
Così anche l’unico afroamericano in corsa, con alle spalle l’edificante storia personale di fatica e sacrifici – dalla famiglia povera e disagiata ma dai forti valori spirituali al vertice della catena Godfather’s Pizza, sorta di Booker T. Washington dei giorni nostri, il nero che interiorizza con diligenza la via americana al successo – si è visto costretto a rinunciare alla competizione. A macchiarne il curriculum, ci avevano già pensato le accuse di molestie sessuali rivoltegli da alcune ex dipendenti ai tempi in cui era AD della National Restaurant Association.
Gli altri, dall’ironico, acuto libertario Ron Paul, ai “giovani” Jon Huntsman e Rick Santorum, restano per ora attestati a percentuali più basse. Per tacere della candidata più strettamente identificata col movimento Tea party, Michelle Bachmann, sorta di riedizione della Palin, con la medesima postura ultraconservatrice e populista.
Resta Mitt Romney. Cauto, elegante, di famiglia saldamente ancorata nell’establishment repubblicano, anche dopo quattro anni Romney ha la caratura più presidenziale di tutti. Figlio di George, politico-simbolo degli anni della rust belt e della grande industria automobilistica, già più volte candidato, ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney ha però un profilo ideologico incerto. Ha studiato all’estero, in Francia. Ha guidato lo stato più liberal d’America. è mormone. è più conservatore del padre (i tempi cambiano...), ma piace nel Nordest progressista e delle città. “Sure, he looks like a President”, titolava già nel 2007 Time. “But what does Mitt Romney really believe?”.
Una domanda che resta nell’aria – l’aria fredda e incerta di Washington a fine novembre – di queste primarie repubblicane già cominciate eppure ancora ai nastri di partenza.
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