I referendum sono richieste di legittimazione di scelte che la politica ordinaria non sa o non vuole prendere. Possono però anche essere strumenti al servizio di classi dirigenti populiste, deboli e incapaci di esprimere dei progetti coerenti.

 

1 - I referendum sono sotto i riflettori. Negli ultimi tempi abbiamo avuto quello britannico sulla permanenza o meno nell'Unione Europea (ha vinto Brexit e non Remain), poi quello ungherese sui limiti all'immigrazione (perso dal proponente che voleva limitarla), e, infine, quello colombiano per suggellare l'accordo di pace con i guerriglieri (rigettato). Tra non molto in Italia avremo quello sulla riforma della seconda parte della Costituzione.

Non che i referendum siano una novità degli ultimi tempi, perché abbiamo avuto anche quello scozzese sull'indipendenza dal Regno Unito, quello catalano sull'indipendenza dalla Spagna, quello greco sulle politiche di austerità, e, in Italia, prima quello "delle acque" e poi quello delle “delle trivelle”.

I referendum segnano dei passaggi, quelli che la normale vita parlamentare non riesce a gestire. È una richiesta di legittimazione, quando questa sembra non emergere dalla vita politica ordinaria.

2 - I referendum sono un quesito – se vogliamo una semplificazione - a favore o contro: “vuoi questo, oppure quello”. Quali conseguenze possa avere una scelta piuttosto che un'altra non è esplicitato nel quesito referendario. Si suppone perciò che il calcolo sulle conseguenze sia stato fatto dagli elettori prima del referendum. Ossia, si suppone che gli elettori siano informati in misura sufficiente, oppure, se non lo sono, abbiano una sorta di intuizione primigenia su quali siano i propri interessi e quelli generali. Nel caso britannico, si hanno dei forti dubbi che sia così, perché hanno votato per Brexit le aree più aperte al commercio con l'Unione Europea.

Sotto i riflettori delle novità politiche non ci sono solo i referendum nei Paesi democratici, perché c'è anche il ritorno della figura del leader forte nei Paesi autocratici, con Putin in Russia ed Erdogan in Turchia. Si ha così, oltre alla semplificazione delle decisioni politiche attraverso i referendum, anche la semplificazione della complessità della politica attraverso la figura del leader forte, che, grazie alla “catena di comando corta”, decide senza indugi che cosa fare. Gli esiti referendari – inoltre - sono di difficile previsione, così come le mosse dei leader forti.

La modesta prevedibilità aumenta la “volatilità” della vita politica nazionale e internazionale. Che cosa sarebbe mai accaduto se il referendum lo avessero vinto i separatisti scozzesi o catalani, oppure i greci contrari all'austerità (per essere precisi, lo avevano vinto, ma il governo ha poi agito diversamente), e infine gli ungheresi che volevano le frontiere chiuse? Non possiamo saperlo, ma probabilmente avremmo avuto delle difficoltà non di poco conto nella costruzione (per quelli che la desiderano, naturalmente) dell'Europa. La “volatilità” è proprio questa: il timore (oppure il desiderio) che accada qualche cosa, e poi questo qualche cosa non accade (oppure accade). Intanto che si prepara e poi si celebra il referendum non si ha mai una previsione attendibile sul suo esito. Su Brexit ed i suoi effetti il discorso è però ancora aperto, dal momento che la trattativa non è ancora iniziata.

3 - Una volta – agli inizi degli anni Novanta - si pensava che fossimo – caduto il Comunismo – giunti alla “fine della storia”, ossia al trionfo della società “Cristiano-borghese”, dopo la quale non si sarebbe avuto un altro tipo di società. Le cose non sono andate così sia per l'insorgenza dei Populismi in Europa e negli Stati Uniti, sia per il dilagare delle Autocrazie in quelli emergenti.

Con l'espressione “populismo” si intende un numero crescente di cittadini, privi di un progetto coerente di governo, che deborda nell'arena politica, chiedendo che si attuino delle politiche diverse. Queste politiche sono non realistiche agli occhi delle élite al potere. Questo è il lato della domanda. Si ha poi quello dell'offerta. Quest'ultima arriva dai leader che hanno dei seguaci, ma non delle classi dirigenti solide capaci di esprimere dal proprio interno un leader insieme ad un progetto coerente.

La crisi della politica tradizionale ha comunque lontane origini, come mostra chiaramente il caso dell'Italia.

Nel pensiero prevalente le masse populiste sono mosse dalla paura. Paura di non avere lavoro, del lavoro che è rubato dagli stranieri, e via enumerando. Insomma, si ha una parte non modesta della popolazione che vota dei leader che non hanno alle spalle una classe dirigente e che vogliono quasi sempre imporre delle politiche non realistiche. Il ragionamento sembra filare, ma manca un anello. Perché mai sono chieste delle soluzioni non realistiche da parte di individui che nella vita privata fanno essenzialmente delle scelte razionali? Un'analisi di sapore economico aiuta a cogliere il punto.

Più la situazione è vissuta come disperata - se penso che vivrò molto peggio, e così i miei figli - si alza la “propensione al rischio”. Se la probabilità che le cose continuino ad andare peggio la giudico altissima, allora tanto vale rischiare. Il ragionamento diventa quello di una politica cui non credo più, e quindi tanto vale cercarne un'altra, perché tanto “così non si può andare avanti”. Non sarà realistica per sé, ma la politica corrente non è per me realistica, perché mi condanna. Un esempio – più raffinato - per mostrare l'anello mancante nel ragionamento sul populismo è questo. La lotteria è una perdita secca per chi gioca, perché la metà degli introiti dei biglietti è trattenuta dallo stato. Ergo la popolazione come tale non dovrebbe giocare. Diverso è il caso degli individui. Se sono senza speranza, se sono disoccupato, se non sono più giovane, anche se la probabilità di avere il biglietto giusto è una su un milione, se quel biglietto mi arriva, ecco che mi cambia la vita. E quindi lo compro (Reuven Brenner, Gabriel Brenner, Aaron Brown, A World of Chance, Cambridge University Press, 2008).

4 - Il “populismo” ruota intorno all'idea che il Popolo conosca senza aver bisogno di una classe dirigente il proprio interesse. Conoscendolo, ecco che lo esprime, e questa è la “Volontà Generale”. C'è però un problema di “composizione”. Un esempio è quello relativo al Movimento Cinque Stelle (M5S), bollato dagli avversari come “populista”. Alla richiesta fatta in Rete nel 2014 su che cosa volessero i suoi seguaci, alcuni risposero “il ritorno della Lira”, ed altri “l'arrivo degli Euro bond”. Due obiettivi ovviamente in contrasto. Poniamo che il M5S riesca a imporsi alle elezioni e che metà dei suoi seguaci elegga dei deputati pro Lira e l'altra metà elegga i pro Euro bond. Assumiamo anche che i suoi deputati eletti siano – come nei desiderata del M5S – sotto il “vincolo di mandato”. Che cosa farebbero una volta eletti in Parlamento? Potrebbero trovare mai un accordo non si dice con gli altri, perché qualcun altro sarà pure eletto, ma anche solo all'interno dello stesso Movimento?

Il Parlamento è luogo in cui si “parla”, e dove si cerca un accordo, una cosa possibile solo se non c'è il “vincolo di mandato”. Il Parlamento si stacca, infatti, dai desideri degli elettori che hanno obiettivi diversi, per cercare un qualcosa – il termine è “compromesso” – che sia comunemente accettato. Il rifiuto delle classi dirigenti – come mediatori degli interessi contrastanti – è la caratteristica del “populismo”. Che poi il populismo abbia una propria classe dirigente in formazione per contrastare le classi dirigenti già insidiate è una contraddizione non osservata dai suoi seguaci, oppure, se osservata, è rifiutata.

Il Parlamento come luogo di contrasto delle idee argomentate anche per la presenza di commissioni, audizioni, sta perdendo presa. Tornano così in auge persino le polemiche di sapore aristocratico dell'Ottocento. Il politico e diplomatico spagnolo Donoso Cortez definiva la borghesia come la classe che (sa solo) discute (re). Una classe, secondo lui, che, messa di fronte alla scelta fra Gesù e Barabba, invece di decidere subito dove stia il bene e dove il male, organizza una commissione parlamentare.

Ebbene, un mondo con queste caratteristiche si esprime al meglio con i referendum. Una domanda binaria poco attenta ai risvolti pratici. I britannici della Cornovaglia che sognano di tornare ai fasti passati dell'Impero, ma che vivono anche grazie ai trasferimenti dell'Unione Europea. Gli svizzeri che pensano di poter bloccare il flusso di lavoratori stranieri, ma che credono di poter continuare a commerciare con gli altri come se nulla fosse.

5 - E qui arriviamo al “decisionismo”, o se preferiamo all'obiettivo della politica tradizionale di voler riprendere la propria presa. Il Parlamento non è per sua natura il luogo dell'indecisione. Dipende dalla Decisione (con la D maiuscola) fondante.

Nel dopoguerra la Decisione di avere il bicameralismo perfetto in Italia era volta a impedire che qualcuno potesse stravincere in presenza di un contrasto “esistenziale”. Lo stesso ragionamento valeva per il Primo Ministro che diventava solo Presidente del Consiglio, che non nominava né licenziava i ministri, che era nominato dal Presidente della Repubblica, che era eletto dal Parlamento e non dal Popolo, e che era l'unico che potesse sciogliere le Camere.

Una volta – ai tempi della Guerra Fredda – si aveva una contrapposizione “esistenziale” (Libertà contro Eguaglianza). Chi avesse vinto le elezioni (oppure, come in Cecoslovacchia, fosse andato al governo attraverso un colpo di Stato) avrebbe imposto all'avversario il proprio punto di vista. Oggi non esistono contrapposizioni “esistenziali”, perché si è trovato il compromesso nel modello di una società di libera iniziativa individuale entro uno stato sociale diffuso – il lascito “buono” del Novecento. La discussione è, alla fine, intorno alla combinazione (ai pesi relativi) di libertà individuale e protezione sociale. La “modestia” del messaggio politico odierno è nella sua “prosaicità”, da contrapporre alla “tragicità” di una volta.

In un mondo tragico uno può ben spendere il proprio tempo partecipando alla vita di partito o almeno andare a votare, in un mondo prosaico uno pensa all'utilità marginale del proprio tempo, che, se non dedicato alla politica, potrebbe portare dei benefici maggiori (il “qualunquismo razionale”). Aggiungiamo perciò all'analisi - oltre alla semplificazione referendaria - anche l'astensionismo (che, di suo, rende ancor più difficili le previsioni).

Il referendum di dicembre sull'abolizione del bicameralismo perfetto registra questo cambiamento epocale – la fine della contrapposizione esistenziale fra i poli politici dopo la guerra, e la politica divenuta prosaica con il suo seguito di qualunquismo razionale. L'altro oggetto maggiore del referendum è la centralizzazione delle decisioni sulle infrastrutture.

Due brevi note: 1) il bicameralismo perfetto dopo la caduta della “Prima Repubblica” ha peraltro impedito – tranne nel 2001 e 2008 – di avere delle maggioranze omogenee. Nel 1994 Berlusconi vinse alla Camera, ma non al Senato. Nel 1996 Prodi vinse al Senato, ma non alla Camera. Nel 2006 Prodi vinse alla Camera ma non al Senato. Nel 2013 è accaduta la stessa cosa a Bersani. La governabilità da Letta fino a Renzi è stata legata al prevalere delle grandi coalizioni prima e delle piccole poi; 2) la Legge Elettorale non è oggetto del referendum e sarà ridiscussa.

La semplificazione binaria “vera” del referendum di dicembre è: “volete uscire dal sistema politico che aveva un meccanismo di pesi e contrappesi volto a impedire che lo scontro esistenziale potesse risolversi in un danno irreparabile di una delle due parti?”. C'è chi risponde SI al quesito, ma poi entra nei dettagli dei difetti della riforma per spiegare le ragioni del proprio NO. Qual è allora la “vera” ragione del NO? L'avere un sistema mal funzionante per continuare ad alimentare lo scontento e quindi il consenso del proprio bacino elettorale, perché sa che, non avendo ancora i numeri, non può governare, oppure perché, avendo i numeri, non vuole governare?