Le mele cadono quando sono mature. I governi, invece, quando è matura l’opposizione.

In pillole, è questo il senso del tentativo, ancora una volta fallito venerdì 14 ottobre, di far cadere il governo Berlusconi su un voto parlamentare.

Le difficoltà dell’esecutivo italiano non sono certo un fenomeno unico. In tutta Europa, anzi in tutti i paesi avanzati alle prese con gli effetti della crisi, le maggioranze di governo sono in affanno, perdono le elezioni locali (vedi Germania), sono costrette a convocare elezioni anticipate sapendo già che le perderanno (vedi Spagna e nel recente passato Grecia), cercano senza successo di concordare con l’opposizione piani economici più o meno ambiziosi (vedi Stati Uniti), hanno esponenti coinvolti in scandali a sfondo vario (vedi, da ultimo, il caso del ministro inglese Fox).

Per contrasto, i paesi le cui economie meno hanno risentito della crisi – vedi il Brasile – vivono processi elettorali e cambi di governo assai meno traumatici.

Questo per intanto dice una cosa, ossia che nelle democrazie i processi politici sono meno accidentati se “oliati” dalla crescita economica: la ridistribuzione rende più agevole la creazione del consenso, e allo stesso tempo la creazione di opportunità e il clima positivo di aspettative indotto dalla crescita riducono le pressioni ridistributive.

L’opposto accade quando, come oggi in Italia, i redditi si contraggono (e lo fanno da anni), le opportunità si rarefanno, e le risorse ridistribuite devono essere tagliate, per salvaguardare gli equilibri del bilancio pubblico.

La vera anomalia italiana, in questo quadro, è semplicemente la mancata presa d’atto, da parte della maggioranza ma anche dell’opposizione, che la situazione è questa, e tale rimarrebbe chiunque fosse al governo. L’hanno invece capito gli spagnoli, che prima di andare alle urne hanno in linea di massima messo i conti in sicurezza, affrontando i problemi del bilancio pubblico. Questo, e non altro, spiega la minor sfiducia con cui il debito sovrano emesso dalla Spagna viene giudicato dai mercati rispetto a quello italiano.

Inoltre, l’Italia oggi – e le classi dirigenti italiane – portano una responsabilità ulteriore e assai grave: rischiare di provocare, con i loro comportamenti, la disintegrazione del sistema dell’euro e con esso dell’Unione europea.

Di tutto questo si faticherebbe a trovare traccia nel dibattito politico e parlamentare italiano recente. Vi è senza dubbio stata negli scorsi mesi, settimane e giorni una crescente pressione alle dimissioni del Presidente del consiglio (dalle prese di posizione di Confindustria a quelle del cardinal Bagnasco, fino alle stesse manifestazioni di piazza, che pure hanno motivazioni ben più diffuse e strutturali), ma nessuno sa con che cosa si potrebbe sostituire il governo in carica e, soprattutto, per fare che cosa.


In realtà, bisognerebbe fare tre cose, tutte difficili.

La prima è il prelievo sui redditi/patrimoni più elevati, destinato ad abbattere lo stock del debito e/o a finanziare la crescita.

La seconda l’intervento sulle pensioni, che darebbe un segnale sulla volontà di garantire la sostenibilità di medio/lungo periodo del debito.

La terza, che renderebbe accettabili le prime due, un taglio drastico alle indennità parlamentari. Tutto il resto – abolizione delle province, spending review, riforma fiscale e del welfare – è indispensabile, ma viene dopo.

Anche la legge elettorale, a ben pensarci, è un falso problema.  Per orripilante che sia la normativa attuale, se non fosse scientemente utilizzata “a fin di male” potrebbe comunque produrre un ceto parlamentare accettabile: d’altronde, le preferenze furono abolite da un referendum più o meno per le stesse ragioni per le quali oggi se ne chiede la reintroduzione. Senza contare il fatto che la Germania vota da sempre con liste bloccate, e riesce a eleggere una classe politica decente, o molto meno indecente di quella italiana.

Ma tant’è. A questo punto sono possibili tre scenari, in ordine di  probabilità decrescente, nessuno dei quali particolarmente confortante.

1) Per evitare il referendum (e perché la maggioranza è comunque debolissima), si vota a marzo o giù di lì, con l’attuale legge elettorale.

2) Sempre per evitare il referendum, si trova un accordo per modificare la legge elettorale e si vota a maggio o giù di lì.

3) Si tira a campare, si fa il referendum e si aspetta fino al 2013 per votare.

Tutto questo a condizione che i mercati finanziari tengano, che gli interessi sul debito non si impennino, che non esploda lo scontento di piazza, che la stagnazione economica attuale non viri in recessione pesante... E chi potrebbe sensatamente escludere il verificarsi di una o più di queste circostanze?

Un’alternativa, per la verità, ci sarebbe: che la maggioranza e l’opposizione – ma anche le mille categorie e caste e corporazioni italiane – smettano di parlare d’altro (principalmente, ciascuno di se medesimo e dei propri interessi) e prendano atto della situazione. A quel punto, si potrebbero prendere (non importa con quale governo, anche il governo cosiddetto “istituzionale” è un falso problema) quelle tre misure di cui sopra, o qualcosa di simile, così da voltare pagina, o almeno cominciare a farlo.

Ma, appunto, il problema è: le mele matureranno e cadranno, o sono destinate a marcire sul ramo, e noi con loro?