La Commissione Istruzione del Senato ha recentemente promosso un’indagine conoscitiva sull’abrogazione del valore legale del titolo di studio.

È un tema che ritorna periodicamente nel dibattito sulla modernizzazione del Paese e di certo non è una novità: a suo tempo, anche Luigi Einaudi fu promotore di un’indagine sulla questione.

Il valore legale della laurea consiste nella certezza – appunto legale – del possesso da parte dei laureati di una preparazione accademica conseguita in conformità agli standard fissati dall’ordinamento didattico nazionale. In altre parole, assicurando un sistema d’insegnamento sostanzialmente omogeno sull’intero territorio nazionale, lo Stato certifica la preparazione del titolare del diploma di laurea.

Si tratta di un caposaldo della disciplina universitaria italiana, il cui riferimento di base è costituito dall’art. 167, regio decreto 1592/1933, e che nonostante le molte riforme intervenute negli anni a riformare i corsi di laurea (si pensi alla laurea triennale o alla laurea specialistica) non è mai stato modificato. Tanto è vero che anche l’art. 4 del decreto ministeriale 509/1999 ha ribadito il principio, stabilendo che i titoli conseguiti al termine dei corsi di studio dello stesso livello, appartenenti alla stessa classe, hanno identico valore legale.

Una laurea conseguita in qualunque parte d’Italia ha quindi lo stesso valore legale e conferisce gli stessi diritti al suo titolare. Chiunque possegga un titolo, ad esempio in giurisprudenza, può quindi accedere ad un esame di stato o concorso pubblico senza che l’eventuale prestigio dell’ateneo di provenienza possa avere alcuna valenza rispetto al candidato e alla sua formazione.

Originariamente, il valore legale del titolo rappresentava una sorta di certificazione statale della qualità. Oggi dobbiamo chiederci se questo modello di istruzione superiore abbia piena valenza, oppure se non sia più adeguato ai nostri tempi e non rappresenti un retaggio corporativo ormai superato.

In un’intervista al Corriere della Sera (8 aprile 2011), il Presidente della CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) ha affermato che “in futuro dovremo consentire alle università di chiamare i professori che vogliono. Così gli atenei farebbero a gara a prendere i docenti migliori, alzando la qualità generale”. Opinione del tutto condivisibile, ma ci si chiede se questo progetto non debba prima passare attraverso l’abolizione del valore legale della laurea, così da realizzare la piena autonomia degli atenei.

A ben vedere, il mercato ha da tempo anticipato qualsiasi riforma in materia: le imprese non prestano attenzione al valore legale del titolo, ma piuttosto al percorso accademico/scientifico compiuto dal candidato (quale università si è frequentata, con quali professori e così via). Il che significa che il mercato privilegia nelle sue scelte la ricerca della qualità.


In quest’ottica, viene facile comprendere la critica principalmente mossa al sistema d’insegnamento attuale, ovvero che la formale equivalenza del titolo di studio non crea le condizioni per la competizione all’interno del sistema universitario, che sarebbe invece opportuna per il costante innalzamento del livello accademico.

Una certificazione statale, sostanzialmente centralizzata, non viene quindi vista quale migliore risposta per la realizzazione di un sistema di “concorrenza culturale” tra i vari sistemi universitari, che sarebbe invece virtuoso per la crescita del Paese. La miglior controprova di quanto detto insisterebbe proprio negli atenei (pochi) che si collocano come punte d’eccellenza e i cui laureati trovano lavoro con grande facilità.

Un confronto, pur semplificato, con il mondo anglosassone, patria della libera attività universitaria, ci porta a considerare il loro sistema scolastico come rivolto non tanto al conseguimento di una certificazione statale del titolo di studio, quanto a una preparazione d’eccellenza, aspetto che costituisce un fattore decisivo per accedere non soltanto al mondo del lavoro ma anche alla vita pubblica. Si pensi, ad esempio, alla campagna presidenziale di Barak Obama e a quante volte i media abbiano sottolineato alla sua laurea conseguita all’Harvard Law School.

L’abolizione del valore legale della laurea comporterebbe non solo una serie di ripercussioni a tutti i livelli della società, ma la concorrenza tra gli atenei costituirebbe anche la spinta decisiva per il miglioramento della qualità dei corsi di laurea e degli insegnamenti.

Se si creasse un sistema in cui ad avere efficacia fosse il percorso formativo scientifico, la certificazione offerta dal titolo di laurea insisterebbe proprio nella qualità e nel prestigio dell’istituzione accademica frequentata dallo studente, segno tangibile di un sistema virtuoso – competitivo – contro un sistema di certificazione statale – spesso baronale – che mostra i segni dell’usura del tempo.

La vera rivoluzione cui stiamo assistendo da qualche tempo sta nel fatto che il “pezzo di carta” non conferisce più diritti, come presuppone il suo valore legale, ma pone semmai degli obblighi in termini di preparazione e di qualità a cui il sistema universitario deve saper rispondere.