In quest’ottica, viene facile comprendere la critica principalmente mossa al sistema d’insegnamento attuale, ovvero che la formale equivalenza del titolo di studio non crea le condizioni per la competizione all’interno del sistema universitario, che sarebbe invece opportuna per il costante innalzamento del livello accademico.
Una certificazione statale, sostanzialmente centralizzata, non viene quindi vista quale migliore risposta per la realizzazione di un sistema di “concorrenza culturale” tra i vari sistemi universitari, che sarebbe invece virtuoso per la crescita del Paese. La miglior controprova di quanto detto insisterebbe proprio negli atenei (pochi) che si collocano come punte d’eccellenza e i cui laureati trovano lavoro con grande facilità.
Un confronto, pur semplificato, con il mondo anglosassone, patria della libera attività universitaria, ci porta a considerare il loro sistema scolastico come rivolto non tanto al conseguimento di una certificazione statale del titolo di studio, quanto a una preparazione d’eccellenza, aspetto che costituisce un fattore decisivo per accedere non soltanto al mondo del lavoro ma anche alla vita pubblica. Si pensi, ad esempio, alla campagna presidenziale di Barak Obama e a quante volte i media abbiano sottolineato alla sua laurea conseguita all’Harvard Law School.
L’abolizione del valore legale della laurea comporterebbe non solo una serie di ripercussioni a tutti i livelli della società, ma la concorrenza tra gli atenei costituirebbe anche la spinta decisiva per il miglioramento della qualità dei corsi di laurea e degli insegnamenti.
Se si creasse un sistema in cui ad avere efficacia fosse il percorso formativo scientifico, la certificazione offerta dal titolo di laurea insisterebbe proprio nella qualità e nel prestigio dell’istituzione accademica frequentata dallo studente, segno tangibile di un sistema virtuoso – competitivo – contro un sistema di certificazione statale – spesso baronale – che mostra i segni dell’usura del tempo.
La vera rivoluzione cui stiamo assistendo da qualche tempo sta nel fatto che il “pezzo di carta” non conferisce più diritti, come presuppone il suo valore legale, ma pone semmai degli obblighi in termini di preparazione e di qualità a cui il sistema universitario deve saper rispondere.
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