In Italia la politica parla frequentemente di riforma della Giustizia, senza riuscire a proporre un intervento strutturale, ma seguendo logiche emergenziali e “mediatiche”. Quello che manca è un ragionamento complessivo, che muova dalla considerazione dei valori costituzionali che regolano il sistema giudiziario e che esprimono la civiltà del Diritto di un Paese.

È notizia recente che l’ufficio GIP di Milano ridurrà in misura significativa i giorni e gli orari di apertura al pubblico durante la settimana.

Le “difficoltà” e carenze del pianeta giustizia sono di nuovo un fatto di cronaca e hanno innescato doverose e fondate proteste da parte del foro ambrosiano per le intuibili conseguenze negative sull’esercizio del diritto di difesa. Pare quindi di essere ancora lontani da uno sbocco positivo per i – molti - mali che affliggono il sistema giudiziario.

La politica parla frequentemente di riforma della Giustizia, senza tuttavia saper proporre un intervento strutturale, di largo respiro, e finisce piuttosto con l’agire attraverso una logica emergenziale, legata alle grida d’allarme lanciate dall’opinione pubblica (si pensi al reato di omicidio stradale in fase d’approvazione) o a seguito, ad esempio, di sentenze o moniti europei (come nel caso del recente contenzioso sul tema della sovrappopolazione carceraria).

L’eccessiva durata dei procedimenti è “storicamente” additata quale principale responsabile del grave malessere della Giustizia italiana, ma è in realtà un problema a cui si è già iniziato a porre rimedio: molti Tribunali si sono modernizzati, i tempi della giustizia in qualche Foro sono stati ridotti significativamente e lo sforzo della macchina giudiziaria è senza dubbio teso a una maggiore efficienza. Ad esempio, sono stati introdotti il processo civile telematico e, anche se non ovunque, lo sportello URP (Ufficio Relazioni con il Pubblico) per razionalizzare i rapporti con le Cancellerie.

L’informatizzazione dei dati e delle procedure, in generale, ha “dato uno scrollone” agli scaffali più polverosi rendendo, con un poco di managerialità e adeguati investimenti, affrontabile e risolvibile il problema della lentezza della Giustizia.

L’investimento delle risorse per rendere più celere la macchina è tuttavia bloccato. Probabilmente, perché al netto della politicizzazione, comunque altamente negativa, cui la Giustizia è stata soggetta negli ultimi vent’anni, si è sopito il dibattito e l’attenzione sul senso e sul significato dell’esercizio della giurisdizione e, ancor più grave, su quale sia il suo valore nella nostra società.

Allora, di quali valori stiamo parlando? Il processo per ricettazione di un trapano comperato “per due soldi” in un mercatino del sabato rappresenta una perdita di tempo inutile? Oppure mette in gioco valori ben più complessi in grado di incidere sulla vita del cittadino che per questo è sotto processo? Del resto, non è solo una questione italiana; il bel film di David Mamet “il caso Winslow”, tratto da un caso di cronaca di inizio ‘900, pone il problema del valore dell’onore della famiglia rispetto all’accusa di un furto di un vaglia di cinque scellini.

Su questa rubrica sono state pubblicate diverse interviste a Magistrati (Angelo Mambriani, Claudio Castelli, Anna Introini, Fabio Roia) da cui affiorava come essa trattenga dentro di se più componenti, che si intersecano tra di loro, le une in dipendenza dalle altre, e che influiscono e concorrono tutte all’affermazione del Diritto e dei valori su cui questo si fonda.

Ad esempio, al diritto punitivo dello Stato, che si esprime con la forza della macchina pubblica, si contrappongono il diritto della persona dapprima sottoposta alle indagini e quindi eventualmente processata attraverso le garanzie del cosiddetto “giusto processo” (art. 111 Cost.), il diritto ad una celebrazione del processo in un tempo ragionevole e, ancora, il diritto ad avere una sentenza che sia ben motivata alla luce dei dati processuali (sia essa positiva o negativa per l’imputato).

Questi sono solo alcuni dei valori costituzionali che regolano il nostro sistema giudiziario e che esprimono la civiltà del Diritto di un Paese.

Nel dibattito sulla Giustizia questi temi sono però poco trattati. Molto di più lo sono quelli strettamente legati alle inchieste di cronaca o ai reati da reprimere attraverso una logica emergenziale. Abbiamo così smesso di chiederci che cosa vogliamo che sia o divenga la Giustizia. Se si impiega un anno per il processo del trapano e si accerta l’innocenza (o la responsabilità) dell’imputato non si sono sprecate risorse, ma si è affermato un sistema di diritto che è garanzia di tutti (il ragazzino del caso Winslow veniva assolto).

La Giustizia deve divenire il luogo del diritto e dell’esercizio della giurisdizione al di là di ogni spettacolarizzazione o contrazione dei diritti della difesa (tema molto delicato sul quale è intervenuta anche l’Unione delle camere penali attraverso la formula dell’astensione dalle udienze? Oppure deve essere identificata con il compito non tanto di applicare la legge, e quindi assolvere o condannare chi è accusato di aver compiuto un reato, ma piuttosto con quello di far “rigare dritto i cittadini”?

La Costituzione italiana indica la prima soluzione. Lo Stato deve manifestare la sua autorevolezza con un sistema giurisdizionale prima di tutto garantista, espresso in un tempo ragionevole e con tutte le garanzie costituzionali, perché non si rimanga in una sorta di limbo in cui si assiste un consenso immediato al momento dell’avvio delle inchieste, per poi scivolare in processi che si perdono nelle cronache giudiziarie, con poca tutela verso il cittadino indagato.

Il faro guida deve essere il diritto del cittadino sottoposto ad un procedimento, rispetto al quale non deve prevalere nessuna istanza di snellimento del carico giudiziario tout court, se questo comporta una negazione dei suoi diritti. Ed è rispetto a questo principio che il dibattito sulla Giustizia deve ruotare.

Una Giustizia che è trattata come un costo, senza investimenti strutturali, non può produrre nulla di virtuoso e oltretutto finisce con il divenire un peso per l’economia, non potendo garantire un intervento con modalità e tempi adeguati. La questione è particolarmente vera per il sistema della giustizia civile, che per lo stato in cui versa pare addirittura essere un ostacolo all’attrazione di investimenti nel nostro paese.

In una recente intervista pubblicata sul sito Palagius inerente il tema della non punibilità per la particolare tenuità del fatto - che nell’intento del legislatore dovrebbe portare ad una riduzione del contenzioso penale - si è ad esempio trattato il tema dell’obbligatorietà dell’azione penale quale argomento a latere della riforma. Questo tema, come quello dell’effettività della pena (e cioè la corrispondenza tra la pena irrogata con sentenza di condanna e l’effettiva espiazione della stessa), delle questioni legate all’uso della carcerazione preventiva, della separazione delle carriere dei magistrati (garanzia di terzietà del giudice) sono  richiedono invece un’analisi aperta.

In tutto questo non vanno poi dimenticate le vittime di reato. La recente eliminazione del diritto di opposizione da parte del querelante all’emissione del decreto penale di condanna verso il querelato (il decreto penale di condanna elimina, se non opposto dal condannato, i 2/3 del procedimento) astrattamente crea un beneficio allo smaltimento del contenzioso, ma dall’altra parte limita i diritti della persona offesa, che vede compresso il diritto di far valere le sue pretese nell’ambito di un procedimento penale. Non è che, se vogliamo, un piccolo esempio, che però rende l’idea della complessità degli interventi nel sistema giustizia e la necessità di una attenta calibrazione degli stessi.

Si commenta che la Giustizia non interessa perché agisce dopo il fatto, perché non opera in sostanza sulla parte viva della società. Ciò può essere vero, ma dovrebbe essere soprattutto vero il contrario, in quanto essa crea i confini nei quali si svolge la vita civile di ciascuno di noi.