I Brics (acronimo di Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa: i Paesi emergenti di successo) sono stati celebrati per molto tempo, quando si sosteneva che la loro crescita era ormai diventata "autonoma" – ossia che essa si muoveva trainata dai consumi domestici e dalle esportazioni verso gli altri Paesi emergenti, da che era stata "eteronoma" – ossia trainata dalle esportazioni verso i Paesi emersi. Si usava proiettare nei decenni i loro elevati tassi di crescita e perciò si arrivava alla conclusione che un giorno avrebbero superato i Paesi emersi. Naturalmente, si faceva anche notare che dei tassi di crescita così elevati, uniti ad un debito pubblico assai modesto, rendevano le loro attività finanziarie molto più attraenti nel lungo termine di quelle di molti Paesi emersi. I presupposti di una crisi nel Brics erano però presenti, ma poco discussi. Negli ultimi tempi sta emergendo un quadro diverso, molto meno "ottimista". Ai Brics, nei ragionamenti in forma di "pillole" che seguono, aggiungiamo anche la Turchia e l'Egitto. I ragionamenti proposti sono stati pubblicati in forma estesa e in più puntate su "Lettera Economica", ed hanno come caratteristica quella di affrontare le diverse questioni in chiave "storico-politica", piuttosto che come proiezione del PIL.
Incominciamo dalla Russia (1). In sintesi estrema. Il bilancio dello stato russo dipende dagli introiti energetici in misura significativa. Si ricevono più servizi di quante imposte si paghino, perché la differenza è bilanciata dagli introiti petroliferi. Se il prezzo del petrolio non sale molto, alla lunga o si riducono i servizi o si alzano le imposte. Le esportazioni russe sono pressoché tutte di gas e petrolio, mentre viene importato quasi tutto, dai cavoli alle automobili. Un sistema che può anche funzionare, se la popolazione è scarsa e i lavori manuali vengono svolti da immigrati senza diritti. Ma la Russia non è un emirato. Non può quindi optare per il modello dell’emirato, ma neppure per quello cinese. Nel primo caso la popolazione è troppo numerosa, e, comunque, la grande ambizione lo impedisce. Nel secondo, manca un apparato industriale distribuito in molti settori, e che cresca col contributo degli investimenti esteri.
Continuiamo con la Cina (2). In sintesi estrema. Le caratteristiche dell'economia cinese sono una grande crescita degli investimenti con un occhio distratto all’efficienza dei medesimi, con il sistema creditizio che “pompa” in misura crescente mezzi finanziari nel settore economico. La Cina dovrebbe quindi cambiare modello di sviluppo: da un’economia trainata dalle esportazioni ma, soprattutto, dagli investimenti, verso un’economia trainata dai consumi privati con investimenti efficienti. Purtroppo, i consumi crescono stabilmente se e solo se le famiglie non hanno timore. Se non devono pensare a mantenere la generazione precedente mentre accumulano la propria pensione. Le famiglie risparmiano per far studiare i figli e casomai si rompessero una gamba, giacché il sistema sanitario cinese è costosissimo e lo è anche quello scolastico – si capisce: in proporzione al reddito. I cinesi risparmiano dunque in vista degli eventi futuri, laddove questi eventi sono molto costosi. Se, invece, questi eventi diventassero meno costosi – le assicurazioni e lo «stato sociale» riducono l’onere degli eventi negativi, perché si divide con gli altri la probabilità che si manifestino gli eventi negativi medesimi –, i cinesi risparmierebbero di meno e consumerebbero di più. Tecnicamente parlando, verrebbe meno il risparmio detto «precauzionale». A ben pensarci, i poveri in Europa hanno incominciato a consumare di più quando sono nate le società «di mutuo soccorso»: condividendo in molti – ecco la legge «dei grandi numeri» – gli eventi negativi futuri, la probabilità di essere individualmente rovinati si riduce. Le caratteristiche «semi-socialiste» della Cina sono state (forse) utili fino a oggi, ma per il domani servirebbero caratteristiche «socialdemocratiche»: meno impianti per la produzione di cemento e «stato sociale». Se così non sarà, la gran capacità produttiva cinese finirà per premere sul mondo.
Arriviamo in Brasile (3). In sintesi estrema. Il primo problema è la mancanza di manodopera qualificata. Il secondo problema, strettamente connesso alla mancanza di manodopera specializzata, è l’incapacità delle università di formare laureati e dirigenti sufficientemente qualificati per far fronte alla concorrenza internazionale in molti settori. Tuttavia, ci vorranno anni, forse decenni, prima che la scuola pubblica (ma anche la privata, che nonostante i prezzi è di livello medio-basso), dalle elementari alle università, possa recuperare il gap con altri emergenti. Chi volesse de localizzare in Brasile la sua attività, dunque, dovrebbe pensare anche a questa problematica non di poco conto, soprattutto nel settore delle produzioni ad alto valore aggiunto. Il terzo problema per le aziende straniere che vogliono entrare in Brasile è rappresentato dal cosiddetto «protezionismo. Il Brasile – che del Mercosur è il cardine – rimane un paese fortemente protezionista. Per rendersene conto è sufficiente guardare ai prezzi dei beni di consumo importati quali, ad esempio, i vini e gli alimenti, ma anche i computer o le automobili. Altro elemento critico, il quarto dell’elenco, è quello dell’«incertezza legislativo/giuridica». Il «protezionismo legale» pone dunque un’incertezza molto elevata per chi voglia investire in Brasile. Il quinto problema è il rischio che è insito in qualsiasi economia troppo surriscaldata. Gran parte della crescita dei surplus commerciali brasiliani è infatti dovuta ai prezzi record delle materie prime, prodotti con un modesto valore aggiunto.
Riprendiamo con l'India e il Sud Africa. In sintesi estrema (4). E' soprattutto nell’ambito della struttura sociale che India e Sudafrica non sono riuscite a compiere un salto di qualità. Le due nazioni, per quanto esempi dell’emancipazione dal fardello soggiogante dell’uomo bianco, non sono state in grado di realizzare quella rivoluzione sociale che avrebbe permesso una più equa distribuzione sia delle risorse economiche sia dei poteri decisionali. O più semplicemente non l’hanno voluto. Partiamo dai due eroi nazionali. Il Mahatma Gandhi era un esponente della casta dei commercianti, educato alla maniera britannica e che – pur di levarsi di torno l’Impero di Sua Maestà – fece un patto con il diavolo. Ovvero con l’aristocrazia terriera dei Pandit e guerriera dei Brahmini. Jawaharlal Nehru, i cui diretti discendenti detengono saldamente il potere a Delhi, non aveva nulla a che spartire con i suoi connazionali derelitti. Dall’indipendenza proclamata nel 1947, emerse una repubblica federale che, solo per i numeri, oggi si vanta di considerarsi la più grande democrazia del mondo. Il sistema delle caste venne decretato illegittimo, senza però che venisse sradicato dalla mentalità della popolazione. Così chi era ricco e potente rimase al vertice dell’economia nazionale. Gli oppressi, emancipati a norma di legge, continuarono a essere trattati come tali e a considerarsi inferiori. L’economia dirigista – assemblato traballante di socialismo e pietas gandhiana – partorì una riforma agraria che tolse buona parte dei terreni coltivabili agli agricoltori tradizionali, ridistribuendoli a chi di agricoltura non aveva mai sentito parlare. Una cosa simile sta succedendo ora in Sudafrica. Una volta conquistato il potere, l’Africa National Congress – ricorrendo a metodi estremisti quanto estremista era l’apartheid – ha pensato bene di espropriare le terre dei bianchi per darle a nuovi proprietari neri. Anche qui senza intuire che non ci si improvvisa agricoltori dall’oggi al domani. In questo il destino del Sudafrica sembra già scritto. Basta vedere cos’è successo nel vicino Zimbabwe, dove, a seguito della cacciata dei coltivatori bianchi, l’economia è collassata. Conversione sociale non effettuata, know-how gettato al vento, ma soprattutto mancato regolamento di conti con il passato. Il colonialismo in India e l’apartheid in Sudafrica sono stati trattati alla stregua di due cadaveri di cui il nuovo establishment voleva disfarsi sbrigativamente. Senza farne l’autopsia. E soprattutto senza chiedersi se del “caro estinto” ci fosse un’eredità. Da qui la domanda. India e Sudafrica: giovani potenze proiettate nel futuro, oppure locomotive terzomondiste che, per una qualche ragione hanno preso una discesa e quindi la loro velocità non può che aumentare? I più ottimisti dicono che, proprio perché giovani, queste due nazioni non possono che migliorare. Ma il problema è proprio nel futuro. In India l’età media è di 26 anni; 25 per il Sudafrica. Le aspettative di vita però sono rispettivamente di 67 e 49 anni. Insomma, indiani e sudafricani sono giovani, poveri e muoiono presto.
Passiamo all'Egitto. In sintesi estrema (5). L’impatto della crisi politica egiziana sull’economia mondiale potrebbe essere immaginato come trasmesso da un duplice canale: attraverso la minor produzione di petrolio e attraverso l’interruzione delle rotte che ne consentono il trasporto. In entrambi i casi, i numeri smentiscono la paura. La produzione di petrolio egiziana è inferiore all’1% di quella mondiale, e il trasporto di petrolio attraverso il Canale di Suez è pari all’1% del totale trasportato. (Durante la crisi del 1956 dall’Egitto passava, invece, quasi il 9% del petrolio mondiale, e la crisi fu avvertita). Perciò la crisi politica egiziana è economicamente pericolosa solo se si allarga verso i produttori di petrolio maggiori, che, in ordine crescente, sono Libia, Algeria, Iraq e Arabia Saudita. Detto degli impatti internazionali, osserviamo l'andamento domestico. Two-fifths of Egyptians can’t read. Egypt imports half its wheat, the staple food commodity. More than nine-tenths of married Egyptian women have suffered genital mutilation. Three out of 10 marriages in Egypt unite first or second cousins, reinforcing clan loyalties. The only institution of national cohesion is the army. Egypt displays the symptoms of social disintegration last seen in Russia after the fall of Communism, But there’s a deadly difference and past episodes of economic chaos. The egyptian economic problems are incomparably worse than those of the post-communist world. Russia, the world’s largest oil producer, was largely self-sufficient in food and held its own in high-tech military competition with the United States until the 1980s. Prior to the fall of Communism, Eastern Europe was literate, urban, and industrial. Egypt’s social structure—with two-fifths of the country mired in extreme rural poverty and another quarter starving on thin subsidies in Cairo and Alexandria—simply is not viable.
Concludiamo con la Turchia. In sintesi estrema (6). L’economia turca è sempre più al traino del settore industriale e di quello dei servizi, anche se l’agricoltura rappresenta ancora il 30% degli occupati. Il massiccio programma di privatizzazioni ha ridotto la presenza statale in settori vitali come industria, banche, trasporti e comunicazioni, e permesso lo sviluppo di una classe media molto dinamica, che è uno dei fattori di successo della Turchia in questo momento. Accanto alla crescita turca infatti va però segnalato l’aumento costante del disavanzo delle partite correnti, il tallone d’Achille dell’economia del paese, che porta al problema della dipendenza dall’hot money, i capitali che entrano nel paese solo per il breve termine e che si contrappongono agli investimenti diretti, come quelli nelle infrastrutture, che prevedono una presenza nel paese sul lungo termine.
(2) http://www.centroeinaudi.it/agenda-liberale/articoli/3514-la-cina-%C3%A8-una-tigre-di-carta.html
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