La maternità è retribuita per legge in quasi tutti i Paesi dell’Unione Europea, ma molti problemi restano irrisolti

Il mondo continua ad essere molto difficile per le donne. Tanto per fare un esempio, sono 6 ogni 10 le donne in Italia che lavorano non volontariamente part-time e questo numero è in costante aumento.
Secondo i dati Istat, nel nostro Paese, la percentuale di donne che hanno un contratto part time è pari infatti al 32,8% delle occupate, il triplo del numero degli uomini, che è invece l’8% (sempre sul totale degli occupati). In questo dato rientra sia chi sceglie il part time sia chi è costretto a farlo, tuttavia, stando ai campioni intervistati, la maggior parte delle donne vorrebbe passare ad un contratto a tempo pieno ma l’azienda non glielo consente.

Come è possibile evincere dai grafici riportati (Figura 1 e Figura 2), la disparità della tipologia di contratto tra i due sessi in Europa è molto consistente e in continua crescita dal 1998 ad oggi. Tra i paesi del Vecchio continente con le più alte percentuali di donne in part time vi sono la Francia, l’Austria, il Belgio, la Germania, l’Irlanda la Svezia e il Regno Unito. Il picco si raggiunge nei Paesi Bassi dove la percentuale di donne in part time è superiore al 60 per cento, non è dunque un caso che l’Olanda sia stata definita la prima “part time economy al mondo”, in quanto anche la percentuale di uomini con questa tipologia di contratto è pari a circa il 30 per cento, dato superiore alla media europea.
Valori nettamente inferiori invece nell’Est Europa come in Repubblica Ceca, Lettonia ed Estonia. I trend sono gli stessi per quanto riguarda le percentuali di uomini in part time, maggiori nel Regno Unito e nei paesi del nord come Danimarca, Svezia, Paesi Bassi e Norvegia e inferiori nell’Est Europa. Nell’istogramma in Figura 3 si può chiaramente notare come nel 2016 la percentuale di donne in part time in molti paesi europei sia più che doppia rispetto a quella degli uomini.

La differenza tra la tipologia di contratto part-time o full-time non è l’unico svantaggio dovuto alla discriminazione di genere che le donne subiscono sul posto di lavoro: il 19,6 per cento di loro viene infatti assunto con dei contratti a termine, contro il 17,7 per cento degli uomini (sempre sul totale occupati) e, pur essendo in media più istruite dei colleghi maschi e molto spesso sovraqualificate per il tipo di impiego (25,7% contro il 22,4%), il loro stipendio è notevolmente inferiore; senza contare infine le penalizzazioni, come ad esempio il demansionamento o il licenziamento, che alcune di loro affrontano a causa della maternità.
Come evidenziato dall’OCSE, l’Italia continua a registrare un tasso di occupazione femminile tra i più bassi dei paesi membri: infatti, sebbene il tasso di occupazione totale sia aumentato, dal 1977 ad oggi il tasso di occupazione femminile è passato dal 33,5% al 47,8%, percentuale molto lontana dalla media europea pari al 61,1%.
La bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro comporta gravi conseguenze anche sul piano pensionistico: ad esempio in Italia le donne che lavorano hanno carriere discontinue, a causa della maternità, e percepiscono stipendi inferiori a quelli degli uomini anche per via del largo uso del part-time oltre che per la discriminazione dovuta al genere. In base ai dati Inps, solamente il 36,5% delle donne beneficia di una pensione di vecchiaia frutto della propria storia contributiva mentre tale percentuale raddoppia per gli uomini (64,2%).

Nel 2016, anche a causa dei ridotti servizi per l’infanzia, il 78% delle donne ha rassegnato le dimissioni e il 40% di queste ha addotto come principale motivazione la difficoltà di conciliare la vita lavorativa con quella familiare. Inoltre, il tasso di occupazione femminile risulta diminuire proporzionalmente al crescere del numero di figli: questo cala infatti di 8 punti per le mamme con un solo figlio, di 18 in caso di due figli e arriva a perdere oltre 22 punti in caso di tre figli. La dinamica occupazionale femminile cambia tuttavia in caso di un elevato livello di istruzione: tra le mamme laureate la percentuale di occupazione diminuisce in maniera molto più contenuta , con valori tra il 7 e il 13 per cento, a seconda del numero di figli. Molto diversa è invece la situazione delle donne in possesso solamente di un diploma, la cui percentuale di occupazione scende come minimo del 12%, e ancora più tragica è la prospettiva delle mamme con solo la licenza media, il cui valore percentuale occupazionale diminuisce di oltre il 23%.
Un altro fattore che gioca un ruolo chiave nella scelta delle mamme di continuare o meno a lavorare dopo la nascita di un figlio è la disponibilità economica: alti stipendi permettono infatti di acquistare servizi di cura dai privati per i propri figli, come asili nido e baby sitter.

La maternità è retribuita per legge da alcuni anni in quasi tutti i paesi appartenenti all’Unione Europea, eccezion fatta per la Norvegia e il Portogallo (Figura 4). Non è tuttavia scontato, per una donna, riottenere la precedente posizione lavorativa al rientro dal periodo di maternità (Figura 5), per quanto nel Vecchio continente tale possibilità sia garantita per legge eccetto che in Austria, Germania, Norvegia, Svezia e Svizzera.
Meno fortunate sono le donne che decidono invece di licenziarsi per assistere i propri figli durante i primi anni della crescita e successivamente provano a reinserirsi nel mercato del lavoro: molte di loro infatti o non trovano un’occupazione (Figura 6) oppure devono accontentarsi di un contratto part-time.
É tuttavia importante sottolineare che quella del part-time non è una scelta sempre obbligata: alcune mamme optano per questa soluzione perchè si rivela un valido strumento di conciliazione tra vita familiare e lavorativa. Questa visione è tuttavia una spia della generale tendenza ad appiattirsi su una visione tradizionale e non moderna dei rapporti di genere all’interno della società, visione che si basa sull’esistenza di diverse sfere di pertinenza nell’ambito familiare e lavorativo tra uomini e donne.
Fra i Paesi OCSE, l’Italia è in fondo alla classifica per quanto riguarda la condivisione delle attività domestiche a cui le donne dedicano in media più di tre ore al giorno mentre gli uomini meno di una. Il nostro paese è in fondo alla classifica (ventunesimo posto) anche per quanto riguarda la condivisione del lavoro non retribuito, di cui fanno ad esempio parte le faccende domestiche, la spesa e gli spostamenti. Siamo invece più virtuosi in termini di genitorialità condivisa e ci collochiamo al terzo posto dopo Norvegia (6 minuti) e Svezia (8 minuti): la differenza nel tempo dedicato alla cura dei figli tra le mamme e i papà italiani, secondo le stime, è infatti di soli 12 minuti al giorno.

Gli impegni legati alla famiglia e alla cura dei figli gravano in maniera sproporzionata sulla componente femminile, acuendo così le discriminazioni di genere sia nel mercato del lavoro sia, più in generale, nella società. Una parziale soluzione a questo problema potrebbe essere ad esempio rappresentata da incentivi ed agevolazioni al congedo parentale e per la diffusione del part-time all’interno della componente maschile del mercato del lavoro. Questi provvedimenti, oltre a ridurre il gender gap, potrebbero inoltre facilitare in modo efficace la transizione dell’attuale modello di welfare sbilanciato tra i generi a quello cosiddetto del dual earner-dual career, modello che si basa sull’idea di un’economia a full-time ridotto e dove entrambi i componenti della coppia si dedicano in egual misura sia al lavoro sia all’adempimento dei compiti domestici e alla cura dei figli.