Non vi è guerra senza risvolti economici. Le guerre costano prima di produrre qualsiasi vantaggio economico. I vantaggi economici, posto che esistano, sono per lo più incerti per dimensione, entità, tempestività e durata. Tra gli incerti delle guerre, inoltre, il fatto che molti costi e ricavi sono dinamici e condizionati dalle reazioni degli altri.
Il Cremlino incauto (e squattrinato)
Argomenti di questo tipo sembrerebbero non essere stati tenuti in conto dal Cremlino, decidendo l’invasione dei territori contesi all’Ucraina. La prima cosa che avrebbe dovuto balzare all’occhio di Putin è che al giorno d’oggi le motivazioni patriottiche, nostalgiche e nazionaliste per iniziare una guerra, più o meno calda, difficilmente si pagano da sole.
Piuttosto, se si considera anche semplicemente l’andamento del reddito pro capite (misurato in dollari a parità dei poteri di acquisto) di un certo numero di paesi salta all’occhio che lo Stato ad avere aperto le ostilità non se la passa davvero bene.
I suoi 28 mila dollari di reddito medio (mal distribuito, tra le altre cose) non arrivano alla metà dei 64 mila americani, Stato che per così dire è alla testa della Nato, alleanza che, tra le altre cose, conta 944 milioni di persone in 30 stati, ossia 6 volte gli abitanti della popolazione della Federazione Russa (144 milioni), che hanno ciascuno meno della metà delle risorse. Certo, l’operazione non coinvolge la Nato, se non lateralmente, ma è solo per fare il confronto con le dimensioni economiche dell’occidente.
Dove sta il vantaggio dell’invasione?
Piuttosto, le operazioni militari russe fronteggiano l’Ucraina, Stato sovrano il cui reddito pro capite (sempre in dollari a ppp internazionali) vale 13 mila dollari scarsi. Non c’è dubbio che le due armate contrapposte abbiano potenze militari grandemente a vantaggio della Russia, ma siamo sicuri che conquistare un pezzo dell’Ucraina comporti un vantaggio economico?
Le regioni separatiste dove sarebbero iniziate le manovre potrebbero essere ricche nel sottosuolo, ma non è certo di che cosa, né quanto costi estrarlo, né infine che sia possibile vendere a qualcuno ciò che si trovi.
Quello che invece è certo che una popolazione di circa 7 milioni dovrebbe essere sollevata nei suoi standard di vita almeno ai livelli equivalenti della Russia, secondo le aspettative di coloro che sostengono l’invasione. Il costo annuale di elevare 7 milioni di potenziali cittadini da un reddito di 13 a uno di 28 mila è facile da calcolare, perché ammonterebbe a circa 105 miliardi di dollari all’anno, che di nuovo non sono proprio pochissimi, perché pari al 50% del Pil dell’Ucraina, oppure se si preferisce al 6% del Pil della Russia.
Le conseguenze per i cittadini russi
Siccome è improbabile che annettendo una regione da ricostruire in quanto obsoleta e semi-distrutta il Pil della Russia crescerebbe del 6% all’anno (anche considerando il track record di bassissima crescita durante le presidenze e i governi di Putin), ai cittadini russi nel comunicato diffuso dal loro Presidente il 21 febbraio è mancata l’informazione del probabile aumento fiscale (o del taglio di servizi pubblici, stipendi e trasferimenti) che potrebbe costare l’inclusione del Donbass e dei territori vicini.
Già, perché nel terzo millennio è difficile che una guerra sia sostenibile, economicamente (in termini umani non lo sarebbe mai) sulla base delle risorse che si possono catturare sul territorio. Per il semplice fatto che questo accadeva quando le risorse potevano essere estratte o sfruttate senza mutare di posizione.
Le guerre di un tempo
Si combattevano guerre per guadagnare il diritto a presidiare un corridoio strategico (lungo il quale porre tasse e gabelle), o per sfruttare una forza lavoro o un certo giacimento di capitale naturale. Nulla di tutto questo è immobile come un tempo. Il lavoro si sposta esattamente come il capitale, e anzi entrambi fuggono dalle guerre. Si potrebbe sostenere che un impero florido non è quello che contiene più risorse, ma quello che semplicemente riesce ad attrarne e mantenerne di più, in virtù di due dati: la pace e la libertà.
Ma le guerre rompono la pace e la libertà, ove manca, fa sì che sia il capitale umano a cercarla, andandosene.
La storia dei profughi siriani insegna. Non sono più in Siria. I migliori stanno già producendo Pil e gettito fiscale altrove, in Germania come negli Stati Uniti. Nel tempo in cui il lavoro e il capitale sono mobili, la pace attrae quelli più produttivi e ingegnosi molto più di quanto non li trattenga il filo spinato.
Quanto alle risorse del sottosuolo, non occorre più invadere il Perù per estrarre l’oro dalle sue miniere. Basta avere, negoziandole, economicamente e politicamente, le concessioni di sfruttamento, come fanno le società minerarie in tutto il mondo, come Gazprom sa benissimo, avendo interessi in Libia, Mozambico, Egitto e Algeria. In altri termini, una buona diplomazia vale più di 105 gruppi tattici d’assalto, per sfruttare un qualsiasi sottosuolo.
Nostalgia canaglia dell’Urss
Può essere che Putin abbia accettato di fare un cattivo affare per ragioni semplicemente sbagliate, e se ne accorgerà. A mitigare il danno che potrebbero subire i suoi concittadini, ai quali ha cercato di vendere la nostalgia del vecchio impero russo e sovietico, potrebbe essere la convinzione di ridurre al minimo i loro costi minacciando di tagliare le forniture di energia al resto del mondo, e particolarmente all’Europa e, in particolare, ai paesi più dipendenti come Germania e Italia. E qui il Cremlino potrebbe aver commesso un altro errore di calcolo economico.
Già, perché qualora la Russia dovesse mai rinunciare alle sue esportazioni di combustibili, la sua perdita potrebbe arrivare a 220 miliardi di dollari, che valgono il 13% del Pil russo. A ben vedere, una somma che nemmeno un dittatore si può permettere senza rischiare di perdere consenso e popolarità. Tra l’altro 13 punti percentuali di danni economici che si aggiungerebbero ai sette punti necessari per ristrutturare Donbass e dintorni. Decisamente non un buon affare.
E l’Europa sarebbe in ginocchio?
Non proprio, la Germania importa dalla Russia 18 miliardi di dollari di combustibili e l’Italia 12, pari al 17 e al 19 per cento rispettivamente delle importazioni di combustibili nel complesso, ma trovando un’altra fonte geografica o di rifornimento, la somma non dovrebbe proprio fare paura: si tratta infatti rispettivamente dello 0,4 e dello 0,5 per cento del Pil. Quindi, tagliare le forniture al resto del mondo infligge un danno ben maggiore a chi rinuncia a vendere gli idrocarburi che non a chi deve acquistarne altri in giro per il mondo.
Rubinetti chiusi
Se poi la Russia chiudesse tutti i rubinetti, ebbene i combustibili che verrebbero meno sul mercato mondiale non sarebbero poi impossibili da recuperare, perché fatti tutti i calcoli equivarrebbero grossomodo ai 10 milioni di barili al giorno che l’OPEC ha tagliato tra aprile e giugno del 2020. La capacità di sostituirli ci sarebbe eccome, e in passato non è sempre corso buon sangue tra la Russia e l’Opec, perché quella del 2020 è stata una vera e propria guerra dei prezzi, intercorsa tra l’Arabia saudita e la Russia: quale migliore occasione per restituire il favore?
Infine, c’è la questione del vuoto di interscambio.
Perché che sia la Russia a tagliare le forniture o che sia l’occidente a regimentare i flussi commerciali, come impatterebbe il prosciugamento del circuito commerciale? Ecco, per fare un esempio, l’Italia che nel 2019, prima della pandemia, esportava 537 miliardi di dollari nel mondo (ossia il 27 per cento del suo Pil), in Russia si limitava a venderne 8,8 (miliardi), ossia lo 0,4% del Pil, un importo negligibile.
Tutte le esportazioni verso la Russia non valgono quelle verso un solo Laender della Germania, che nel complesso acquista 65 miliardi di dollari all’anno. Più complicato, però, fare a meno delle tecnologie di importazione da parte della Russia, perché ciò che essa compra in occidente è più strategico per la Russia che importante economicamente per i paesi esportatori. E così anche questo cerchio si chiude. Il bilancio delle conseguenze della guerra, ossia il payout del gioco iniziato da Vladimir Putin la sera del 21 febbraio, non è certo a suo favore.
E, inoltre, più il terribile gioco dura, più il bilancio peggiora, fino, probabilmente, a rendere bollente la sedia dalla quale ha parlato alla sua nazione, omettendo qualsiasi riferimento al diluvio di costi imminente.
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