La guerra fra Israele e Hamas ha colto buona parte del mondo di sorpresa. Non solo le opinioni pubbliche,  ma anche gli addetti ai lavori: Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Biden, aveva scritto, in un saggio per la prestigiosa rivista Foreign Affairs pubblicato il 2 di ottobre (corretto poi online) che «il Medioriente è più tranquillo di quanto sia stato per decenni» e che «we have de-escalated crises in Gaza» (abbiamo ridimensionato la crisi di Gaza).

Se questa era la percezione degli esperti, non c’è da meravigliarsi che le persone comuni facciano fatica ad assimilare la nuova pericolosa realtà. Le manifestazioni che nelle ultime settimane hanno attraversato le capitali di tutto il mondo mostrano, una volta di più, che il conflitto israelo-palestinese non solo non è finito, ma mantiene notevoli capacità “incendiarie” nel resto del pianeta.

Per provare a capire che cosa stia succedendo nell’opinione pubblica di casa nostra, però, è bene avere un punto di partenza e di confronto.

La ingannevole (relativa) tranquillità degli anni passati aveva prodotto in Occidente lo stato d’animo che vediamo riassunto nelle due figure successive, tratte da un sondaggio realizzato nel maggio scorso da YouGov in sette paesi europei più gli Stati Uniti. La prima figura misura l’importanza che i cittadini nei diversi paesi attribuivano al conflitto; la seconda "restituisce" la simpatia dichiarata dagli intervistati per le due parti in causa.

 

Quanto conta per lei il conflitto, se conta qualcosa?
Quanto conta per lei il conflitto, se conta qualcosa?
Quanto vale il conflitto israelo-palestinese per gli europei occidentali e per gli americani (val. %). Fonte: YouGov

Con quale delle due parti simpatizza maggiormente?
Con quale delle due parti simpatizza maggiormente?
Meno di metà degli intervistati parteggia per uno dei due contendenti (val %). Fonte: YouGov
 

Nella prima figura, i paesi sono elencati in ordine decrescente per importanza attribuita al conflitto, nella seconda in ordine decrescente per simpatia dichiarata nei confronti di Israele.

Il confronto consente una serie di osservazioni interessanti.

  • Solo in due paesi su otto – Stati Uniti e Germania – la simpatia per Israele è maggiore di quella per la Palestina, con due differenze però. Negli Stati Uniti, il primo valore è quasi doppio del secondo (29 contro 15 per cento), mentre in Germania la differenza è di soli 2 punti percentuali (17 contro 15 per cento). Inoltre, mentre per gli americani il conflitto era molto importante (45 per cento), i tedeschi apparivano essere i meno preoccupati sul punto (18 per cento)
  • I due paesi che attribuiscono maggiore importanza al conflitto – Stati Uniti e Spagna – hanno simpatie diametralmente opposte: in Spagna quelli che parteggiano per la Palestina sono quasi tre volte i simpatizzanti di Israele (31 contro 12 per cento).
  • Salvo che negli Stati Uniti e in Germania, la simpatia per la causa palestinese è nettamente superiore (si va da poco meno di un quinto degli intervistati – Italia con il 19 per cento – a poco meno di un terzo – Spagna con il 31 per cento) a quella per la causa israeliana (che, Stati Uniti a parte, raccoglie il consenso di una quota di intervistati che va da un decimo a un sesto circa del totale).
  • L’Italia, al terzo posto nella classifica della preoccupazione (43 per cento degli intervistati ritengono che il conflitto sia importante), è il paese che “si schiera” di meno (11 per cento pro Israele, 19 pro Palestina); in tutti gli altri paesi, la somma degli “schierati” sta fra il 33 per cento del Regno Unito e il 44 per cento degli Usa.

Tutto questo sei mesi fa, ossia quando il conflitto era, nei mezzi di informazione, nulla più che un rumore di fondo.

Se si parlava di guerra, era per la guerra in Ucraina. Se si parlava di Israele, era per le intense proteste suscitate dal tentativo del governo Netanyahu di modificare il rapporto fra potere giudiziario e potere esecutivo a vantaggio del secondo. Di Palestina – e in particolare di Gaza – non si parlava affatto.

Il 7 di ottobre (cinque giorni dopo l’uscita dell’articolo di Sulllivan), c’è stato l’orrendo attacco di Hamas. A fine ottobre, l’esercito israeliano è entrato a Gaza, pesantemente bombardata nei giorni precedenti e successivi (le analisi condotte sulle immagini satellitari dicono che le bombe hanno distrutto circa un quarto degli immobili nella parte settentrionale della striscia di Gaza).

Oggi, anche l’opinione pubblica è “bombardata”: il primo choc è stato l’orrore dell’attacco di Hamas, il secondo, ancora in corso, è la violenza della risposta israeliana.
  • In tutta Europa, gli intervistati in questi giorni si dichiarano molto preoccupati per il timore di attentati in Europa: tre francesi su quattro, per esempio, temono un attentato devastante in patria.
  • In generale, gli europei auspicano che i loro governanti si impegnino soprattutto in sforzi di mediazione: oltre metà degli inglesi vorrebbero che il governo agisca da mediatore neutrale (37 per cento) o si tenga fuori dal conflitto (16 per cento).
  • Se l’attacco di Hamas è condannato in maniera pressoché unanime, la risposta di Israele inquieta: il 41 per cento dei tedeschi pensa che sia sproporzionata.
  • In Italia, il 73 per cento degli intervistati vogliono che il governo si impegni per una mediazione e il 58 per cento ritiene che l’invasione di Gaza sia una catastrofe umanitaria di cui una democrazia non dovrebbe rendersi responsabile.

Dappertutto, le simpatie per la causa palestinese sono marcatamente più diffuse fra i giovani rispetto agli anziani, e nella sinistra rispetto al centro e al centro-destra. Molti paesi – Regno Unito, Francia e Germania in particolare – hanno quote consistenti di cittadini di origine mediorientale e/o di religione islamica, e questo complica ulteriormente il panorama.

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Sei mesi fa, come abbiamo visto, più di metà delle persone non si schierava con (o contro) nessuna delle due parti in causa, ma una divisione c’era, e ben visibile. Oggi il conflitto è appena cominciato, e purtroppo non finirà presto. I suoi sviluppi influenzeranno le evoluzioni dell’opinione pubblica e soprattutto il livello di attenzione prestato agli avvenimenti, al di là dello choc iniziale.

L’ultima edizione del sondaggio Eurobarometro, realizzato due o tre volte all’anno in tutti e 27 i paesi dell’UE, mostrava che a giugno scorso gli europei mettevano la guerra al secondo posto fra i pericoli che minacciano il mondo, preceduta dalla povertà e seguita dal cambiamento climatico.

Per i governi occidentali – quello italiano compreso – si prospettano passaggi complicati: sarà difficile conciliare la fedeltà alle alleanze internazionali, le preoccupazioni per la sicurezza nazionale, e la necessità di costruire consenso su posizioni condivise, soprattutto nel momento in cui il conflitto dovesse avere ripercussioni pesanti “in casa”. Anche solo in termini di aumento delle bollette per l’energia.