Prendete il planisfero. Con una matita tracciate una linea che parte da Kimberley, in Sudafrica, e arriva a Mumbay in India. Poi da lì proseguite per Tel Aviv, Israele. Andate avanti: Anversa, New York e da lì tornate a Kimberley. Cinque punti geografici. Cinque vertici di una figura che, con un po’ di immaginazione, potrebbe richiamare quella di un esagono irregolare, con il vertice in basso. Un esagono somigliante al table cut, un tipo di taglio di diamante. Con un po’ di fantasia ci si può arrivare.

 

La geometria piana fa da introduzione a una questione fondamentale nei rapporti India-Sudfrica. Una questione che, per alcuni aspetti, rappresenta il midollo spinale della tessitura geopolitica che Delhi sta sviluppando con Johannesburg e da qui verso il resto del continente. Le cinque città appena nominate costituiscono i punti cardinali del mercato internazionale dei diamanti. Kimberley è in realtà una sineddoche geografica. La città che diede lustro, potere e ricchezza a Cecil Rhodes non è più il cuore dell’estrazione diamantifera mondiale. Così come il Sudafrica negli anni è stato superato da Botswana, Russia e Canada. Tuttavia, il Big hole di Kimberley resta il giacimento diamantifero per eccellenza. A Mumbay, invece, è dove le pietre preziose vengono tagliate. Secondo antichi metodi per i quali l’innovazione tecnologica è lenta se non quasi irrilevante. Il governo indiano ha calcolato in 14 miliardi di dollari le entrate provenienti dal taglio e dalla pulitura dei diamanti, prevalentemente importati. Ai 14 miliardi se ne aggiungano altri 10, che costituiscono il volume appunto dell’import. Una volta estratta e resa commerciabile, la gemma passa nelle mani dei piazzisti, i quali hanno fatto di Tel Aviv un primo hub nel passaggio da Mumbay ad Anversa, sede della borsa internazionale del comparto, fino a New York.

 

Il sistema però sta cambiando. E molto velocemente. Poche settimane fa, la borsa di Anversa ha ammesso di percepire la crisi della delocalizzazione che indiani e sudafricani stanno realizzando. Un po’ dirigendo verso Dubai e Shanghai i propri interessi. È la domanda a richiederlo. Un po’ perché sia a Mumbay sia a Kimberley si sono accorti dell’inutilità di gestire un mercato “a esagono”, invece che limitarsi al segmento indo-sudafricano.

 

È logico che la città fiamminga abbia cominciato a tremare. Se i mercanti di pietre preziose dovessero chiudere bottega, Anversa si vedrebbe sottratta di 56 miliardi di dollari di transazioni che ogni anno si effettuano al suo World diamond center. D’altra parte India e Sudafrica si stanno chiedendo il motivo di dipendere da un’élite occidentale quando ormai le direttrici del commercio sono proiettate su oriente. La domanda di pietre preziose è infatti legata alla crescita della middle class e della produzione industriale. Di solito è il manager, che vede migliorare il proprio tenore di vita, a regalare l’anello con brillante alla moglie o alla fidanzata. Così come l’innovazione tecnologica – per taglio, molatura, smerigliatrici e fabbricazione di semiconduttori – prevede l’introduzione di macchinari altamente sofisticati. Quindi dotati di pietre dure. Crescita della borghesia e perfezionamento della produzione industriale. Così succede in Estremo oriente.

 

Quello dei diamanti inoltre è un comparto che coinvolge un milione di famiglie indiane. Il che significa una grossa percentuale della forza lavoro nazionale. Si tratta soprattutto di esponenti della comunità giainista, nota per il suo austero rigorismo: vegetarianismo e rifiuto in toto della violenza. Un tenore di vita che l’ha portata a trattare in diamanti per forza di cose. Non potendo coltivare il terreno, perché si andrebbe contro la natura, né tanto meno commerciare, per esempio, in automobili (inquinano) e armi, hanno scelto le pietre preziose. Vale a dire oggetti inanimati che, al taglio, non si fa male a nessuno. Sembra assurdo ma è così. I giainisti si sono arricchiti senza andarsela a cercare. E per giunta si sono ben insediati anche ad Anversa.

 

Delhi è arrivata alla conclusione che il transito da Israele, Belgio e Stati Uniti sia uno spreco di risorse che potrebbe essere recuperato. In questo sta coinvolgendo quei governi africani desiderosi di controllare autonomamente la produzione nazionale di pietre preziose. Finora il governo indiano ha ottenuto la disponibilità da parte di Angola, Botswana, Namibia e Sudafrica. La strategia però ha un punto debole. E non risiede tanto nell’opposizione delle multinazionali occidentali. L’India è spinta da una tale aggressività da non temere lo scontro. Quanto nella qualità tecnologica della propria industria. A Delhi si prevede che i depositi di sicurezza e le modalità di taglio delle pietre – soprattutto negli Stati di Chhattisgarh, Andhra Pradesh and Karnataka – raggiungeranno livello adeguati solo entro una decina di anni. Tuttavia, considerando che il prezzo medio dei diamanti resta costante ed elevato, i produttori indiani si sentono sicuri di poter realizzare i propri desideri.

 

A ulteriore vantaggio del progettato asse Mumbay-Kimberley è la questione della garanzia di provenienza. Nel senso che i diamanti estratti dal Sudafrica e tagliati in India non sono macchiati di sangue. In teoria.

 

Vi ricordate la Liberia di Charles Taylor? Oggi a detenere lo scettro della classifica dei diamanti insanguinati è l’Angola, quinto produttore al mondo del settore. Sulla carta, il Paese è in prima linea nella difesa delle esportazioni pulite. Che però non significa evitare lo sfruttamento del lavoro minorile. Bensì si limita ad assicurare che i brillanti non finanzino guerre. Il governo di Luanda infatti ha aderito al Kimberley Process (Kpcs), uno schema di certificazione che prevede: a) che i diamanti non siano destinati a finanziare gruppi di ribelli armati che mirano a rovesciare un governo riconosciuto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite; b) che ogni diamante esportato sia accompagnato da un certificato che provi il rispetto dello schema del Kpcs; c) che nessun diamante sia importato da, o esportato verso un Paese non membro del Kimberley Process. Messo così l’accordo lascia degli spazi di manovra nei quali un diamante macchiato di sangue può essere risciacquato e riciclato. Il Kpcs non dice nulla su come uno Stato dovrebbe gestire il settore (diritti umani, inquinamento ambientale, eccetera). Vuoto di legge anche nel caso in cui sia un governo – riconosciuto dall’Onu ma non per questo casto e puro – a essere il responsabile dell’estrazione.

 

Non è un caso che molti giganti della gioielleria mondiale, da Tiffany & Co. a Zale Corp. abbiano ammesso di non poter verificare la piena tracciabilità di una qualsiasi gemma. La pietra, una volta tagliata e pulita, non permette in alcun modo di stabilirne la sua provenienza.

 

India e Sudafrica hanno intuito l’opportunità dell’insufficienza normativa. Nessuno dei due è vessato da una guerra civile. Così come nessuno dei due finanzia organizzazioni terroristiche. Quindi per entrambi i Paesi sarebbe facile ricevere pietre di dubbia origine, rifarne il maquillage e rimetterle in circolazione. Se poi non si vuole sempre pensar male, ci sono i giainisti – onesti e non violenti – che fanno da garanti. Il tutto senza che ad Anversa facciano storie di responsabilità etica del settore. (continua-2)