Tutti parlano di Islam. Da un punto di vista strettamente economico può essere utile mettere a confronto la cosiddetta finanza “islamica” con quella che può essere chiamata ”occidentale”, ma non quella di oggi, quella dei cosiddetti “senza dio”, bensì quella di ieri, quella dei teologi cattolici.
La finanza islamica è basata su alcune interpretazioni del Corano. I suoi pilastri sono: a) il devolvere parte dei guadagni in carità, b) il divieto di ottenere interessi (superiori al tasso di inflazione) sui prestiti c) gli investimenti devono essere non solo leciti, ma anche non rischiosi, e non di speculazione. Il devolvere parte dei guadagni in carità è un modo per affermare che si ha una qualche redistribuzione del reddito, e fin qui un “occidentale” non avrebbe niente da criticare. Che gli investimenti debbano essere leciti, ossia che non si possa portare avanti un'attività nel campo della droga e della prostituzione, va benissimo, e fin qui di nuovo un “occidentale” non avrebbe niente da criticare.
La parte che lascia perplessi – sempre da un punto di vista “occidentale” - è quella sugli investimenti che non devono essere rischiosi e che non devono lasciare spazio alla speculazione. Qui si ha la contrapposizione: non ammettendo il rischio non si ha progresso economico. Si potrebbe, infatti, contrapporre ai precetti della finanza islamica un ragionamento da economista: gli investimenti sono sempre rischiosi, perché hanno a che fare con l'incertezza. Non è possibile altrimenti. Impedendo di affrontare l'incertezza, non si avrebbe progresso. Nessuno è in grado di affermare in partenza che un'invenzione - che si trasforma in innovazione - possa funzionare. Qui trovate il ragionamento per esteso (1).
Se si applicasse la finanza “islamica”, non si avrebbe progresso economico, questa è la conclusione. Più intrigante è però affrontare i pilastri della finanza islamica sul proprio terreno, che è quello propriamente religioso.
Invece di contrapporre il pensiero economico nato negli ultimi secoli – i secoli della “secolarizzazione” - si può andare indietro, così da evitare la contrapposizione fra i “credenti” e i “senza-dio”. Soccorre perciò andare a ritroso nel tempo – addirittura fino al Medio Evo – per scoprire come la vicenda del rischio e della speculazione era stata trattata. Tornando indietro si scopre che i teologi – per di più francescani – avevano mostrato come i guadagni - frutto del rischio a sua volta figlio dell'incertezza - fossero leciti. Detto in altre parole, persino i “credenti” possono giungere a delle visioni contrapposte.
Di seguito riassumo Stefano Zamagni, Avarizia, Il Mulino (2). Nel mondo medioevale si aveva la tripartizione degli oratores, dei bellatores, e dei laboratores. I primi illuminavano con la parola, i secondi difendevano dai nemici, i terzi lavoravano per alimentare i primi due gruppi e, in minor misura, se stessi. Se i laboratores nutrivano rispetto per i superiori, e i superiori, ossia gli oratores e i bellatores, erano premurosi nei confronti dei sottoposti, ecco che si raggiungeva la “comunione dei cuori” – l’equilibrio statico, in linguaggio economico moderno. In tale contesto il peccato maggiore era la “superbia” – il volere un ruolo diverso da quello assegnato dalla Provvidenza. E dunque l’ambizione per i laboratores, l’abuso di potere per gli altri.
Poi l’economia, a partire dall’XI secolo, comincia a fiorire. Mentre prima si produceva poco più di quanto fosse necessario per sopravvivere, ossia, in linguaggio economico, non si aveva un surplus, ora si produceva molto più di quanto servisse per la sopravvivenza.
L’avarizia è il peccato di volere più di quanto serva per “coprirsi e nutrirsi”. Ma perché è un peccato? Perché distoglie dalla ricerca spirituale, cui uno deve dedicarsi una volta che si sia nutrito e coperto. E dunque, una volta che si abbia un surplus, l’”avarizia” diventa il peccato maggiore, che detronizza la “superbia”. La superbia è il peccato maggiore delle economie senza surplus, l’avarizia è quello delle economie con surplus. Sorge un problema. Se per evitare di peccare si spendesse meno del proprio reddito, ecco che l’economia, in assenza di una domanda sufficiente, si contrarrebbe e perciò si tornerebbe al punto di partenza, quello dell’economia senza surplus.
Come conciliare allora il surplus, che richiede una spesa superiore a quanto strettamente necessario, con il perseguimento della virtù? Secondo San Tommaso, il reddito può essere diviso in due parti. La “sostanza” è quanto necessario per vivere nella ricerca spirituale. L’”abbondanza” è quanto avanza. Segue che l’uomo ricco, se vuole essere virtuoso, deve distribuire l’abbondanza a chi è povero. In questo modo, anche quest’ultimo potrà procedere nella ricerca spirituale. Seguendo San Tommaso, avremmo sia una domanda effettiva sufficiente – i minori consumi dei ricchi sono compensati dai maggiori consumi dei poveri –, che evita che l’economia si contragga, sia il perseguimento della virtù.
L’economia che generava il surplus era molto più complessa di quella dei quattro servi della gleba sdentati che vivacchiavano in un capanno intorno al maniero. Si avevano i commerci. Sono i nuovi problemi che i teologi affrontano. I commerci fanno emergere il problema dell’interesse, che fino a quel momento era confuso con il problema dell’usura.
L’usura è un peccato di avarizia, perché, senza lavorare, uno ottiene più di quanto abbia dato. Detto diversamente, se uno riottiene il capitale prestato senza alcun interesse non pecca. In una società molto povera dove si scambiano sementi e attrezzi (prestiti non in denaro) non sorge il problema dell’usura. Esso sorge quando la società diventa ricca e i prestiti sono in denaro. Nella società ricca, invece di un rapporto fra un benestante che presta e un indigente che chiede, dove si vede molto bene quale sia il contraente debole, si ha un rapporto fra due mercanti, ossia si ha un rapporto fra pari.
Il mercante che riceve il denaro può trovarsi in difficoltà, perché la sua nave è affondata, e quindi chi lo presta si può trovare ad avere un credito inesigibile. È anche vero l’opposto, la nave può giungere a destinazione e tornare, arricchendo il primo mercante. Nel primo caso il mercante che presta il denaro incorre in perdite, nel secondo guadagna nulla. È questa un’asimmetria giustificabile? Evidentemente no. Il divieto di prestare denaro in cambio di un interesse diventa un problema in una società ricca. Si bloccherebbe, infatti, il suo sviluppo. Non si troverebbe credito per i commerci.
Secondo il francescano del Trecento Pietro Olivi, la capacità di un bene di soddisfare i nostri bisogni dipende sia da fattori oggettivi – la scarsità (raritas) e il costo di produzione (difficultas), sia da fattori soggettivi – il nostro desiderio di possederlo (complacibilitas). Dov’è la novità di questo ragionamento che a noi, otto secoli dopo, pare ovvio? Il bene economico deve essere prodotto e poi distribuito, giacché non sorge spontaneamente, e dunque il mercante ha un ruolo sociale, perché lavora. Il mercante, inoltre, si prende il rischio e stima un prezzo. L’interesse – inteso come un guadagno in aggiunta al capitale messo in gioco – è alla fine reso legittimo dal lavoro del mercante.
Resta aperta la questione di come organizzare l’erogazione dei credito, e anche quella di ridurre il campo d’intervento dell’usura. I Monti di Pietà sono la risposta pratica. I Monti sono promossi dai francescani. Essi hanno una pluralità di contributi – di versamenti in denaro – e quindi non dipendono dall’iniziativa di pochi; possono prestare a una moltitudine, dividendo il rischio, senza praticare perciò tassi da usura. (S’intravvede nei Monti la moderna teoria del portafoglio: con un maggior numero di soggetti si riduce il rischio e quindi il tasso di interesse praticabile; il quale minor interesse retroagisce, perché rende più sicuro il portafoglio, riducendo le insolvenze.)
A quei tempi è emesso per la prima volta il debito pubblico. Sorge il quesito: è lecito speculare – ossia comprare e vendere il debito pubblico – contando di guadagnare? Il francescano Francesco da Empoli spiega perché la speculazione non è usura, ossia un guadagno a fronte di alcun contributo. Chi acquista un titolo di stato compra il diritto di riscuotere un interesse e un capitale alla scadenza. Lo stato può però ristrutturare o ripudiare il debito e perciò la riscossione è incerta. Lo speculatore alla fine compra un diritto su un evento incerto. Il guadagno (eventuale) dello speculatore è il premio per il rischio che ha corso. Lo speculatore si comporta perciò come un assicuratore: se l’evento negativo non si manifesta l’assicuratore guadagna, altrimenti perde. La Chiesa ammetteva il guadagno d’assicurazione e perciò doveva ammettere anche quello da speculazione. La finanza diventa lecita sei secoli fa.
1 - http://www.centroeinaudi.it/agenda-liberale/articoli/4312-il-neoliberismo-e-i-suoi-avversari.html
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