La guerra in Siria è diventata uno tra i conflitti più sanguinosi della storia del Medio Oriente. E' difficile fornire valutazioni certe sul suo impatto sull'economia locale, ma anche le stime meno fosche dipingono un quadro estremamente grave.
La guerra civile che sconvolge la Siria ha inizio nel contesto delle Primavere Arabe. Data simbolo è il 15 marzo 2011 ("Il Giorno della Rabbia"), quando si verifica una mobilitazione di massa contro il regime ba'athista, al potere dal 1967. Le iniziali proteste pacifiche vengono soffocate nel sangue: la rivoluzione popolare si trasforma velocemente in una guerra civile, e il fronte anti-regime si sfalda. La situazione si complica ulteriormente con l'intervento – diretto o indiretto – di una serie di potenze regionali (Arabia Saudita, Iran, Turchia) e internazionali (Russia su tutte). Si contempla la prospettiva della fine della Siria come stato sovrano, specie per l'azione di milizie come l'autoproclamatosi Stato Islamico che ha sottratto al controllo del regime ampie porzioni del territorio nazionale (Figura 1).
Intanto, in 5 anni, la guerra in Siria è diventata uno tra i conflitti più sanguinosi della storia del Medio Oriente. E' difficile fornire valutazioni certe sul suo impatto sull'economia locale, data in primo luogo la mancanza di statistiche affidabili; inoltre, ogni considerazione risulta essere un esercizio in scenari controfattuali, dove è arduo isolare l'effetto del conflitto in un quadro di tale complessità politica e militare prima ancora che economica. Tuttavia, anche le stime meno fosche dipingono un quadro estremamente grave.
Per illustrare tale quadro, è opportuno fornire un breve resoconto della situazione politico-economica precedente l'esplosione del confitto; successivamente, ci concentreremo sul problema degli sfollati e sul crollo dell'industria petrolifera, tra le principali cause di una fortissima contrazione del PIL (Figura 2).
Come accennato sopra, il regime ba'thista prende il potere con un colpo di stato nel 1967. Il partito Ba'th è di ispirazione socialista e arabo-nazionalista. Si pone come baluardo dell'indipendenza araba contro l'imperialismo occidentale e mostra chiare tendenze autoritarie. In Siria (come in Iraq, i due stati dove conquista il potere), una volta preso il controllo dell'apparato statale, il partito Ba'th interviene direttamente nell'economia. E' un approccio iper-dirigista: lo stato è il primo investitore in vari progetti di sviluppo, sussidia beni di largo consumo, controlla i flussi di capitali esteri nel paese (limitando fortemente le possibilità di investimento di capitali privati stranieri), e prende diretto possesso di una serie di industrie strategiche (come quella petrolifera). Nel 1970, Hafez al-Assad, ministro della difesa ed esponente del gruppo religioso alawita, diventa presidente. Sotto di lui, la Siria è tra le economie più isolate a livello mondiale. Le priorità del regime sembrano infatti essere altre. Lo sviluppo economico è subordinato e funzionale alle preoccupazioni politiche del regime: stabilità interna (tramite una sistematica soppressione del dissenso) e parità strategica (mai raggiunta) con Israele, che dal 1967 occupa le alture del Golan nella parte meridionale del paese.
Con la morte di Al-Assad nel giugno del 2000, il figlio Bashar ne eredita il potere dopo essere stato 'eletto' dal parlamento come nuovo presidente. Rielezione confermata sia nel 2007 che nel 2014 con percentuali vicine al 100%. Bashar mostra (timidi) tentativi di inserire la Siria nell'economia mondiale. Vengono incoraggiati investimenti esteri, privatizzate alcune industrie (come le telecomunicazioni con SyriaTel), autorizzate banche private, e liberalizzati alcuni aspetti del sistema di sussidi statali. Queste riforme, tra il 2000 e il 2010, hanno avuto sviluppi positivi (che hanno portato ad una crescita annua del PIL intorno al 5%): tuttavia, risultano essere troppo esitanti e comunque frenate da decenni di pratiche nepotistiche, corruzione, scarsa protezione e garanzia dei diritti di proprietà e inaffidabilità del sistema legale in genere. Beneficiano dunque della crescita soprattutto elites e personalità legate in varia maniera al regime. In ultimo, a queste riforme verso un'economia di mercato non vengono affiancate reali riforme in senso democratico.
La prima e più significativa conseguenza del conflitto sull'economia è l'esodo di circa metà dei Siriani dai propri luoghi di residenza e lavoro. Su una popolazione di circa 24 milioni, 7 milioni sono al momento gli sfollati all'interno del paese e altri 4 sono rifugiati all'estero (Figura 3). A questi vanno inoltre aggiuti circa 300.000 morti e un numero imprecisato di feriti e invalidi, probabilmente oltre il milione. Se parliamo di impatto economico, questo sconvolgimento a livello demografico ha investito maggiormente il settore agricolo. Prima del conflitto valeva il 20% dell'economia siriana e occupava circa il 18% della popolazione. Una delle principali conquiste del regime Ba'th – l'autosufficienza alimentare, spesso accompagnato da surplus per l'esportazione – è stato così cancellato, e la Siria è divenuto nuovamente un importatore di derrate alimentari.
La perdita di controllo del regime su buona parte della zona orientale, che ha per capitale Aleppo, non rappresenterebbe invece un grosso problema economico dal punto di vista agricolo: si tratta di regioni per lo più desertiche e meno densamente popolate rispetto alle fertili zone occidentali. Tuttavia, i principali pozzi di petrolio e una parte degli impianti di raffinazione si trovano ora in aree sotto controllo dello Stato Islamico o delle milizie curde. La Siria non dispone di riserve paragonabili a quelle di altri stati arabi come gli emitati del Golfo (Figura 4); ma, prima del conflitto, poteva contare su una produzione di circa 400.000 barili al giorno (Figura 5), che rappresentavano un'importante voce nel bilancio statale (circa 5.5 miliardi di dollari annui, con la maggior parte del greggio esportato verso Italia e Germania – Figura 6). La produzione statale oscilla ora tra i 10,000 e i 30.000 barili al giorno. Lo Stato Islamico è riuscito a finanziarsi in buona parte grazie al controllo appunto dei pozzi e delle raffinerie perse dal regime.
Oltre ad agricoltura e industria petrolifera, ogni settore dell'economia siriana paga il prezzo del conflitto: dalla produzione manifatturiera al commercio, dai servizi al turismo, si stima una perdita in conto capitale (impianti produttivi, etc) equivalente a circa due volte il PIL 2010. Ovvero, su di un PIL di circa 60 miliardi di dollari nel 2010, le perdite derivanti dalle conseguenze della guerra sarebbero oltre 130 miliardi. Tra il 2010 e il 2014, il PIL si è contratto del 62%.
Dati gli ingenti danni infrastrutturali, la distruzione di centri urbani, e gli effetti di sfollamento e migrazione, anche se il conflitto finisse oggi il PIL siriano continuerebbe a contrarsi di circa il 6% per i prossimi 4 anni in assenza di ingenti aiuti dall'estero. Rimagono forse solo due aspetti positivi relativamente a questo quadro: il regime ha investito ingentissime risorse nel 2013 per stabilizzare un tasso d'inflazione che era arrivato a punte del 290% (Figura 7), e la lira siriana è tutt'ora accettata in tutto il paese. In secondo luogo, lo stato mantiene una certa presenza, seppur modica, tramite le gestione di servizi infrastrutturali anche in aree non più sotto il suo diretto controllo.
Una nota in conclusione: se e quando si avrà la ricomposizione della Siria come paese sovrano, un'ulteriore questione sarà rappresentata anche da quei siriani chiamati a ricostruirne l'economia. L'emergere, come accennato, di un 'crony capitalism' (capitalismo clientelare) potrebbe far sì che, quand'anche si rimuovesse il regime ba'thista, individui e compagnie legati a doppio filo con esso si reinsedino nei gangli del sistema economico siriano.
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