Mai come negli ultimi decenni è apparso evidente quanto economia e strategia geopolitica siano inestricabilmente connesse. Le grandi potenze stanno trasformando le loro interdipendenze economiche e finanziarie in armi pronte a colpire gli altri Stati sfruttando i network globali di scambio delle informazioni e finanziari per trarne vantaggi strategici. In War by Other Means, Robert Blackwill e Jennifer Harris hanno elencato gli strumenti principali di questa guerra dell’interdipendenza: politica commerciale e investimenti, sanzioni finanziarie ed economiche, politica finanziaria e monetaria, energia e commodities, aiuti e universo cyber. Il decoupling delle economie americana e cinese, evocato ripetutamente dal presidente Trump, ne costituisce l’esempio più incisivo.

 

Stati Uniti, Cina e Russia si sono distinti sinora come i top player della geo-economia. Invece l’UE, che l’ex ministro degli esteri tedesco Sigmar Gabriel ha definito un vegetariano in un mondo di carnivori, appare determinata a restare attaccata alla sua immagine di paladino della legge e delle norme come evocato anche nel recente discorso sullo stato dell’Unione da Ursula von der Leyen. C’è da riflettere, pertanto, sulla particolare condizione in cui si trova adesso la UE a presidenza tedesca, compressa com’è dalle crescenti tensioni fra grandi potenze.

Dalla fine della guerra fredda la presenza dell’Unione europea sulla scena mondiale si è distinta per un modello di relazioni internazionali per molti aspetti antitetico a quello americano. Peraltro, senza poter contare su un autonomo sistema di difesa, Bruxelles ha contrapposto il suo soft power all’hard power economico-finanziario-militare di Washington privilegiando multipolarità e istituzioni internazionali. Malgrado ciò, quando l’amministrazione Obama, nel 2013, messo da parte l’atteggiamento di sufficienza verso i riti di Bruxelles, lanciò il TTIP per la creazione di un mercato unico transatlantico, le trattative si arenarono in poco tempo. In Europa manifestazioni di piazza confusero pulsioni di natura nazional-populista con sentimenti antiglobal raffigurando il TTIP come il cavallo di Troia delle multinazionali americane. In Germania, malgrado gli Usa fossero divenuti il primo mercato per le esportazioni tedesche, il sostegno al TTIP era il più̀ basso dell’Ue insieme all’Austria.

La disaffezione per l’Europa e l'allentamento del legame transatlantico sono risultati evidenti con la presidenza Trump che ha indebolito, in tal modo, l’unica possibile alleanza contro il mercantilismo cinese. Ma anche la partnership informale che ha legato l’economia tedesca alla Cina per decenni si è incrinata minacciando Berlino e l’UE proprio nella fase di debolezza della ricostruzione contro l’epidemia Covid-19. Il gigante cinese, che secondo le previsioni di giugno del FMI sarà l’unico Paese a registrare una crescita del PIL nel 2020, sta predisponendo un potente ritorno sulla scena internazionale. Dopo la crisi finanziaria del 2008-2009 i macchinari che la Germania aveva fornito al Dragone per potenziare il suo sviluppo industriale avevano aiutato Berlino a riprendersi rapidamente. Adesso questo modello non sembra più funzionare. Perché Pechino, il più assiduo e preminente praticante della geo-economia, da partner si è trasformato in rivale. Mentre le manovre e l’espansionismo di Vladimir Putin alle porte d’Europa, sino alla Bielorussia, in Medio Oriente e in Nord Africa preoccupano tanto Berlino che Bruxelles.


Da tempo vi sono molti segni che l’Europa, pilastro dell’ordine liberale, possa finire sotto una minaccia esistenziale. Le frizioni con gli USA non sono una novità, ma l’unilateralismo di Trump ha scavato un solco difficilmente colmabile. Non si tratta soltanto della Nato, fondata sull’impegno alla difesa reciproca e definita obsoleta da Trump già durante la sua campagna elettorale, o del mancato pagamento del burden da parte degli alleati. Ma anche della guerra dei dazi voluta da Trump contro la Cina e presto allargata a colpire l’UE; nonché́ delle sanzioni contro le imprese e le banche europee in affari con l’Iran dopo l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare. Sullo scacchiere balcanico Trump ha giocato la carta dell’accordo Serbia-Kosovo bruciando sui tempi il lento lavoro di tessitura della Ue, direttamente coinvolta sia per il processo (dilazionato) di allargamento ai Paesi di quella regione sia perché sui Balcani si concentrano da tempo gli appetiti di Mosca e di Ankara.

Le recenti mosse dell’amministrazione Trump sulla scena internazionale in Medio Oriente (dall’accordo con i talebani in Afghanistan, al riconoscimento di Israele da parte di alcuni Stati arabi in cambio di cospicue forniture di sofisticati armamenti made in the Usa) sono tutte mosse dello stesso segno. Una volta svanito l’effetto a breve sulle elezioni americane di novembre, resterà il più importante disimpegno di Washington in una regione che non è più considerata di vitale interesse per l’America e che fa seguito al massiccio ritiro di migliaia di militari americani dalla Germania.

La visita del segretario di Stato Mike Pompeo in Vaticano e in Italia di fine settembre, centrata sui rapporti con Pechino, conferma che il fil rouge della politica estera americana resta il pivot to Asia. Se, nello scenario internazionale che si va configurando - come auspica von der Leyen - si giungerà a un nuovo accordo transatlantico questo sarà, innanzitutto, un’intesa dettata dalla urgenza e dagli interessi di far fronte alle mire di potenza di Pechino.