18 dicembre 2022: una folla immensa, una marea umana invade le strade attorno all’iconico obelisco di Buenos Aires. Oltre 5 milioni di persone - solo nella capitale -grida a squarciagola “Vamos Argentina!”. L’urlo catartico attraversa il Paese. L’esplosione di gioia incorona la vittoria ai Mondiali del Qatar. L’ultima Coppa alzata dall’Albiceleste portava la data del 1986 - tre anni dopo la caduta della dittatura militare - un momento decisivo per la giovane democrazia.
Ora, trentasei anni più tardi, quella speranza si rinnova per ridare forza e fiducia a un Paese che ne ha estremo bisogno. Ma le aspettative potrebbero essere mal riposte. L’economia è impantanata in un ciclo decennale di stagflazione, caratterizzato da deficit fiscali, crescita lenta, cattiva gestione politica e dilagante corruzione. La doppia sfida per il governo di Alberto Fernández nei prossimi mesi è controllare l'inflazione e ricostruire il reddito della maggioranza della popolazione, colpita da oltre quattro anni di recessione economica.
Per questo - e per molto altro ancora - per tutta la durata della Coppa del Mondo, gli argentini si sono aggrappati agli scarpini di Lionel Messi. Per “dimenticare” la povertà che colpisce oltre il 40% della popolazione in quella che è la seconda economia del Sud America, dopo il Brasile. Un Paese che dispone di vaste risorse naturali in campo energetico e agricolo: ha terre fertili straordinarie, riserve di gas e litio - componente chiave per le batterie dei veicoli elettrici e dell’elettronica - un grande potenziale di energia rinnovabile, un produttore alimentare di primo piano…
Mai numeri macroeconomici ci raccontano un’altra Argentina. Il tasso di inflazione annuale non ha raggiunto a fine 2022 il 100% - come molti analisti temevano - ma si è fermato poco sotto, all’84%: il livello più alto mai registrato negli ultimi trent’anni. Il Paese è con l’acqua alla gola. Affoga in una trappola politica populista mentre si prepara alle elezioni presidenziali di ottobre. Nei prossimi mesi politica ed economia si intrecceranno ancora di più. La sfida di tagliare i bilanci si scontrerà con le pressioni elettorali per aumentare la spesa pubblica. Il malcontento sociale aumenterà e indebolirà il sostegno a politiche monetarie e fiscali più severe.
«L’Argentina è un susseguirsi di crisi violente. La conflittualità sociale è endemica, perenne, praticamente ingovernabile» spiega Loris Zanatta, esperto di Sud America e docente di Storia e Istituzioni delle Americhe al Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali all’Università di Bologna. «Non passa giorno in cui non ci sia una manifestazione che blocca l’autostrada o l’Avenida 9 de Julio o che piqueteros assaltino un’istituzione pubblica. Quasi sempre le proteste sono organizzate da leader peronisti che vogliono “estorcere” finanziamenti pubblici ad uno Stato dove funzionari, a loro volta, peronisti li elargiscono. È veramente paradossale».
Per chi conosce profondamente l’Argentina, tutto questo è un déjà vu. Secondo la Banca Mondiale, dal 1950 l'Argentina ha trascorso il 33% del tempo in recessione, seconda al mondo dopo la Repubblica Democratica del Congo. «La storia dell’economia di questo Paese è drammatica ma chi c’è nato, si è abituato» aggiunge Zanatta. «Gli argentini convivono con questo disastro economico dall’epoca del peronismo. Più esattamente, dal 1949 quando in Argentina l’inflazione iniziò a diventare un modo di vivere, una componente permanente della vita quotidiana. Tutti gli argentini, dalla nascita, vengono abituati ad adottare strategie di sopravvivenza, di convivenza con l’inflazione. Nella pratica, significa salvare il salvabile del valore della moneta locale che nella realtà non ha alcun valore e nessuno usa».
Così, se nel 2022 hanno prevalso l’accelerazione dei prezzi e la carenza di valuta estera, in questo 2023 appena iniziato la voragine economica si presenta ancora più estesa e profonda. Se si parla di default, l’Argentina vanta purtroppo una certa esperienza: 9 bancarotte negli ultimi 30 anni.
Parlare di credibilità a rischio è quasi un eufemismo anche se il governo Fernández ha fatto tornare il Fondo Monetario Internazionale in un Paese bloccato dai mercati internazionali del credito e con tassi di cambio multipli che complicano le transazioni quotidiane.
All’inizio del 2022 l’Argentina ha infatti trovato un accordo con il Fmi sulla ristrutturazione del suo debito di oltre 44 miliardi di dollari, contratto nel 2018 per evitare il default. In sostanza, sono state modificate le condizioni per la sua restituzione. Ma difficilmente l’Argentina riuscirà a mantenere gli impegni. «I governi di ogni colore, ma soprattutto quelli peronisti e populisti
che hanno governato per la maggior parte del tempo, hanno sempre usato il Fondo Monetario come capro espiatorio su cui sfogare la frustrazione nazionalista dei cittadini. Invece in quest’ultimo accordo il Fondo Monetario ha ceduto moltissimo. Non ha chiesto al governo riforme strutturali di cui l’Argentina ha immensamente bisogno. Si è limitato a raccomandare la riduzione del deficit fiscale».
La “grande macchina” che produce l’inflazione fuori controllo da tempi remoti è proprio il deficit fiscale: l’Argentina spende infinitamente più di quanto incassa. E gran parte di questa spesa è spesa pubblica, non produttiva. Spiega Zanatta: «Siamo di fronte ad uno stato feudale, corporativo, dove ogni categoria controlla il suo “bottino”, alimenta la sua clientela. Uno Stato gigantesco, totalmente parassitario. Dove il 40% della popolazione paga le tasse e mantiene il restante 60% che vive grazie ad una sessantina di quelli che da noi si chiamerebbero redditi di cittadinanza. Una fabbrica di povertà alimentata combattendo la povertà con metodi assistenzialisti. E il fatto che il 40% della popolazione sia povero è scandaloso, grida vendetta. Perché l’Argentina è un paese potenzialmente ricco. Prima del peronismo il tasso di povertà non superava la soglia del 5%. Il declino di questo Paese è un caso unico nella storia dell’umanità del ventesimo secolo».
È vero, spiegare l’Argentina solo attraverso parametri economici razionali non è possibile. È tutto molto più complicato. All’inizio del ‘900, l’Argentina era uno dei Paesi più ricchi del mondo. Più di Francia e Germania. Si parlava di “miracolo argentino”. Poi, tutto è andato storto: perché? Neppure Simon Kuznets, economista americano e Premio Nobel per l’economia nel 1971, sembrava avere una risposta. Diceva: “Esistono 4 tipi di paesi al mondo: i Paesi sviluppati, i Paesi sottosviluppati, il Giappone, che nessuno sa perché cresca, e l’Argentina, che nessuno sa perché non cresca”. «Mi sembra evidente che, se i governi argentini, l’opinione pubblica argentina, la classe dirigente argentina hanno un atteggiamento così irrazionale verso l’economia, forse il presente va interpretato in termini culturali e non solo strettamente economici».
E la cultura porta dritto dritto al peronismo. Secondo Loris Zanatta - che ne ha trattato ampiamente in numerose sue pubblicazioni - oggi la visione economica del peronismo è stata innalzata a cultura nazionale. Va ben oltre i confini del partito e va fatta risalire all’antropologia cattolica. «In Argentina c’è un atteggiamento pregiudizialmente ostile al libero commercio, al libero mercato, alla libera impresa. Parole come concorrenza, competitività, produttività sono considerate alla stregua di “bestemmie economiche”. Quasi sfide all’identità nazionale. Ecco perché a partire dal peronismo, si è affermato un modello che fa leva sulla protezione del mercato interno e sul ruolo centrale dello Stato nel governo dell’economia».
Va detto che tutto questo avviene in un mercato interno ridotto dove si sono creati immensi interessi corporativi che è difficilissimo scardinare. «E diciamolo: alla maggior parte degli industriali argentini, salvo eccezioni che ci sono, il mercato protetto va molto bene». E pensare che, secondo Peron, l’Argentina sarebbe dovuta diventare un Paese di 100 milioni di abitanti. Oggi supera a fatica i 47 milioni…
Tra le nuove generazioni però qualcosa sta cambiando. Cresce l’insofferenza verso la mitologia antiliberale, anticapitalista del peronismo. Anche perché i risultati sono devastanti e sono sotto gli occhi di tutti. Un personaggio, in particolare, è da tenere sott’occhio, Javier Milei. Classe ’70, politico, economista, scrittore, conduttore radiofonico, si sta imponendo come rappresentante del liberalismo argentino e gode di un ampio consenso. «Più che un liberale classico, lo definirei un anarco capitalista» spiega Zanatta. «Ma nella sua proposta politica si annida un pericolo. Sfruttando la grande insofferenza degli argentini per lo Stato clientelare, inefficiente, che succhia risorse, inibisce lo sviluppo, rischia di ottenere l’esatto opposto. Passare dal paternalismo cattolico del peronismo ad una via anarcocapitalista. Ma non è la soluzione per una Argentina che ha bisogno come il pane di uno Stato più piccolo, efficiente e trasparente. Non può passare da “Tutto Stato” a “Niente Stato”». Sarebbe l’ennesimo - e forse non ultimo - paradosso argentino.
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