Gli iraniani rischiano di passare dalla repubblica degli ayatollah alla repubblica dei pasdaran.

Questi ultimi sono le guardie rivoluzionarie, fedelissime all’ideologia dell’ayatollah Khomeini che le aveva create all’indomani della rivoluzione del 1979 e dell’instaurazione della repubblica islamica. Di fatto, oggi gli iraniani rischiano di passare dalla padella nella brace perché in questi quarantatré anni il clero sciita non è stato in grado di crescere una nuova generazione di religiosi, capace di prendere le redini del Paese e, soprattutto, di adeguarsi alle esigenze della popolazione.

I pasdaran si sono insediati con prepotenza nei centri vitali del paese, in politica come in economia. I pasdaran controllano infatti un conglomerato industriale, economico-finanziario e politico, con articolazioni che ne estendono la consistenza e la capacità ben oltre il mero dato numerico delle sue forze in armi.

Lo stesso vale per i paramilitari basiji, di cui diremo tra poco. Non sono solo una milizia armata volontaria, ma anche un articolato sistema organizzativo sul piano sociale, culturale, mediatico e politico. Gli interessi economici connessi all’universo dei pasdaran e dei basiji sono molto eterogenei, sebbene i principali ambiti di manovra siano rappresentati dall’industria militare. Hanno le mani in pasta nel settore delle infrastrutture pubbliche, controllano i porti e gli aeroporti, nonché numerose società commerciali che gestiscono l’importazione e l’esportazione di macchinari, prodotti semi-lavorati e, soprattutto, il business del petrolio e del gas. Non meno importanti sono le partecipazioni nei trasporti, nelle telecomunicazioni e nel sistema bancario e finanziario.

Pasdaran e basiji sono in prima linea nella repressione di regime

Nelle proteste innescate dalla morte della ventiduenne Mahsa Amini lo scorso 16 settembre, dopo l’arresto da parte della polizia morale, le vittime sono 402. Tra queste, 58 minori. Oltre 16.800 gli arrestati, tra cui 524 studenti, la maggior parte ha tra i 16 e i 22 anni. È pensando a loro che il Leader supremo Khamenei, 83 anni, ha dichiarato che «sono troppo deboli e troppo piccoli per danneggiare il sistema». Se lo slogan dei giovani è «Donna, vita, libertà», nulla è più distante dalla leadership ferma alle parole d’ordine della rivoluzione del 1979: «Morte all’America» e velo obbligatorio. Le autorità di Teheran non hanno intenzione di cercare un compromesso, e quindi la repressione andrà avanti.

Per comprendere meglio gli ingranaggi della macchina repressiva in Iran, Mondo Economico ha intervistato Nicola Pedde, direttore dell’Institute for Global Studies.

Nicola Pedde guida l'Intitute for global studies

Direttore Pedde, com'è articolato l’apparato della sicurezza della Repubblica islamica?

«È assai articolato e complesso. In termini generali possiamo individuare le due principali componenti delle forze militari (i pasdaran e le forze armate) e quelle del ministero degli Interni (la polizia). Ciascuna dispone di numerose sotto-articolazioni, che concorrono alla gestione della difesa nazionale, della sicurezza e dell’ordine pubblico. La protesta in atto, ad esempio, è iniziata in seguito all’uccisione della giovane Mahsa Amini da parte della polizia morale, una componente delle forze di polizia del Ministero degli Interni. Nelle ultime settimane sembra letteralmente svanita dalle strade, nel tentativo– tardivo e senza successo – da parte del governo di dare una risposta alle proteste».

Su quanti militari, pasdaran e basiji possono fare conto le autorità di Teheran?

«È difficile fornire un dato preciso sulla reale composizione numerica degli apparati di sicurezza. Le forze di polizia sono quelle più consistenti, con numeri intorno alle 500mila unità, che includono i funzionari amministrativi e la parte logistica. Per quanto concerne i pasdaran, si tratta di circa 230.000 militari e 80/90 mila paramilitari basiji. Poi ci sono le forze armate propriamente dette, che includono l’esercito (Artesh), la marina, l’aeronautica e le forze di difesa aerea. Dispongono di un totale complessivo di personale – incluso quello amministrativo e logistico – che si aggira sulle 600mila unità, ma che raramente viene impiegato nella gestione dell’ordine pubblico».

Quali forze della repubblica islamica stanno mettendo in atto la repressione?

«In questa fase, la gestione della protesta è primariamente condotta dai pasdaran e dalle forze di polizia, che spesso operano in modo molto differente tra loro. I pasdaran, inoltre, dispongono di una forza paramilitare conosciuta come basiji che include forze militari e unità volontarie di attivisti e vigilantes. A mio avviso, i basiji rappresentano l’elemento di più difficile gestione da parte del governo, perché godono di un’autonomia concessa loro da individui e organizzazioni che solo in parte rispondono direttamente alle strutture centrali della politica e della sicurezza, agendo spesso in totale autonomia e senza forme di controllo».

Chi controlla forze armate, pasdaran e basiji?

«Mentre da un lato vi sono forze armate e polizia che seguono le direttive dell’esecutivo, dall’altro sono presenti unità del tutto autonome, che non di rado agiscono ricorrendo alla violenza in modo del tutto arbitrario. Al tempo stesso, a proposito di gestione della sicurezza e di repressione della protesta è opportuno sottolineare due aspetti. Il primo riguarda la grave repressione, che ha già provocato centinaia di morti ma è non è paragonabile a quella di cui siamo stati testimoni tra il 2009 e il 2019, quando i morti furono migliaia. In altri termini, in questa fase le autorità politiche sono incerte sulle modalità da adottare perché da una parte vi sono gruppi politici che chiedono una repressione massiccia e risolutoria, mentre altri invece invocano la moderazione per non esacerbare una situazione già pericolosamente esplosiva, che potrebbe condurre a una vera rivoluzione. Non mancano voci critiche sulla repressione anche tra le forze dell’apparato militare e di polizia. Paradossalmente, il governo della Repubblica Islamica si trova oggi dinanzi alle stesse incognite che caratterizzarono le ultime fasi del governo dello scià tra il 1978 e il 1979».

Tenendo conto del fatto che pasdaran e i basiji sono animati da una forte ideologia, sono possibili defezioni a favore dei manifestanti?

«Lo stereotipo secondo il quale l’Iran è un apparato politico monolitico e verticale, sotto l’assoluto controllo del Leader supremo, è una costruzione interpretativa tutta occidentale, che non risponde alle reali dinamiche del potere iraniano. Di pari passo, è un errore ritenere che i pasdaran siano un’organizzazione granitica, senza posizioni divergenti al suo interno. Nelle ultime settimane numerosi esponenti dei pasdaran hanno espresso giudizi e posizioni critiche sulle dinamiche che hanno portato alle proteste, dimostrando quanto sia intenso il dibattito. Anche le modalità di gestione della crisi in atto sono parte di una riflessione che spazia da posizioni più rigide ad altre più pragmatiche, che guardano con preoccupazione all’escalation che si determinerebbe con una repressione più sanguinosa».

Quanto pesano le denunce di interferenze esterne?

«È un modo per svuotare di significato la protesta. È difficile dire se effettivamente sia presente un’influenza straniera sulle dinamiche della crisi. Il punto centrale resta la natura squisitamente spontanea della protesta, che affonda le sue radici in un malcontento costruito su una sedimentata frustrazione dal punto di vista del costume, delle aspettative economiche e delle opportunità per milioni di giovani».

Che cosa ci può dire della dimensione popolare della protesta?

«Da settembre a oggi la trasformazione è evidente. Pur restando sostanzialmente acefala e quindi senza una leadership riconosciuta, la protesta è cresciuta enormemente nel paese, transitando da una postura inizialmente incruenta in direzione di una nuova dimensione molto più ostile e determinata. Tra le vittime di queste settimane si contano molti appartenenti alle forze di polizia e agli apparati militari. Quelle che inizialmente erano solo manifestazioni di piazza sono diventate vere e proprie azioni dimostrative per colpire i simboli del regime. Questa trasformazione rischia di innescare un meccanismo di gestione della repressione potenzialmente fuori controllo, ancora una volta richiamando le dinamiche della rivoluzione che portò alla fine della monarchia nel 1979».

Oltre alla repressione, quali altre difficoltà i manifestanti devono affrontare?

«La prima deriva dall’assenza di una leadership, che implica la difficoltà di trasformare il malcontento in qualcosa di più strutturato, che abbia la possibilità di definirsi in un vero e proprio movimento con una propria proposta politica. Se questo non dovesse accadere, sarebbe molto forte il rischio di un indebolimento della protesta. La seconda difficoltà deriva dal tentativo di manipolazione, tanto all’interno quanto all’esterno. Sul piano domestico non è da escludere che gli stessi pasdaran, o più in generale i politici di seconda generazione, possano volerne cavalcare alcune istanze, trasformandosi nella leadership che oggi manca. Questo permetterebbe di accelerare quel processo di transizione generazionale già in atto da tempo, favorendo la trasformazione del sistema teocratico in una forma di presidenzialismo sotto la forte influenza dell’apparato militare. Al tempo stesso, tuttavia, è anche palese un tentativo di strumentalizzare la protesta dall’esterno, soprattutto nell’ambito della diaspora iraniana negli Stati Uniti, attraverso una narrativa che il più delle volte non coincide con quella degli iraniani che manifestano nelle strade del paese, e rischia di snaturarla e indebolirla».

Quale esito potrebbero avere le proteste?

«Potrebbe succedere quello che è accaduto in Egitto dopo la primavera araba, il governo dei Fratelli Musulmani e la restaurazione del potere militare. Se l’Iran dovesse prendere questa strada, sarebbe ben diversa da quello auspicata dalla diaspora iraniana negli Stati Uniti e in Europa, e anche da molti degli antagonisti politici dell’Iran, come Israele. Al potere a Teheran andrebbe infatti una generazione caratterizzata da un minore pragmatismo rispetto agli ayatollah. La nuova leadership guarderebbe alla deterrenza militare come una necessità imprescindibile (e quindi la questione sul programma nucleare potrebbe diventare ben presto spinosa) e guarderebbe maggiormente, dal punto di vista politico ed economico, verso l’Asia. In particolar modo alla Cina e – meno – alla Russia come partner privilegiati per lo sviluppo economico e la "visione strategica" dell’Iran».