Su 625 miliardi di esportazioni italiane verso il mondo (dati 2023, ultimo anno completo), gli Stati Uniti sono destinatari del 10,7 per cento, pari a 67 miliardi (Tabella 1). Di questi, le voci maggiori chiamano in causa l’industria dei macchinari strumentali (14 miliardi), i mezzi di trasporto (12 miliardi), i prodotti farmaceutici (8 miliardi, in larga parte anche prodotti da società di nazionalità Usa), quindi i prodotti alimentari e la moda, con rispettivamente 6,5 miliardi e 5,5 miliardi.

Se queste voci della nostra bilancia commerciale con gli Stati Uniti fossero colpite da un dazio del 10%, pari a quello della Cina, il costo sarebbe di 6,7 miliardi, se invece il dazio fosse del 25% come quello praticato al Canada e al Messico (poi sospeso per un mese), il costo teorico salirebbe a 16,7 miliardi, ossia quasi 1 punto percentuale di Pil (0,8%). E siccome sarebbe un costo ricorrente (ossia non una tantum), non sarebbe cosa da poco.
Per fortuna l’economia è un sistema complesso e i dazi non li pagano necessariamente gli esportatori. Se i prodotti sono necessari e sostituibili, gli importatori cercheranno di negoziare dei ribassi di prezzo dagli esportatori stessi, minacciando di cambiare i fornitori. Ma se i dazi sono imposti a tutti i paesi del mondo, suppergiù, l’unico scampo sarebbe l’economia nazionale, dove i beni necessari potrebbero essere più costosi per i consumatori americani.
Se i prodotti sono necessari e non sostituibili, come i farmaci prodotti per le stesse marche americane, o come certe macchine, attrezzature e ricambi, il prezzo di importazione salirà e basta. E di nuovo pagherà Mr. Smith.
Se i prodotti sono voluttuari (consumi discrezionali) e non sostituibili, come capita con i prodotti della moda, l’alta orologeria, la gioielleria griffata e certi consumi alimentari esclusivi, aumenteranno i prezzi interni e i costi saranno tutti pagati dai consumatori del paese che ha posto i dazi.
Se i prodotti, infine, sono voluttuari e sostituibili, come capita con i prodotti di consumo di media gamma, l’aumento dei prezzi al consumo potrebbe ridirigere la domanda verso prodotti interni o di importazione più a buon mercato. Però l’Italia è già un paese competitivo, anche se non low cost in assoluto. In un contesto di dazi generalizzati perderebbe quote di mercato nei confronti di paesi più convenienti per queste merci, ma ne acquisterebbe da paese più costosi. Per esempio, una bottiglia di vino italiano potrebbe essere scalzata da vino argentino, ma potrebbe a sua volta scalzare il vino francese, mediamente più caro.

Esportazioni dell’Italia nel mondo (gennaio-dicembre 2023. Valori in milioni di euro , dati cumulati)

Fonte: ISTAT (elaborazione Mondo Economico) - Classificazione per attività economica Ateco 2007

Per i settori che non riuscissero a eludere il gravame dei dazi vi sarebbero due strade: vendere il Pil diretto negli Usa in altri paesi (difficile nel breve periodo, quindi si dovrebbe ridurre la produzione e quindi un pezzettino di Pil italiano sparirebbe) oppure si potrebbe andare a produrre negli Usa (che è quello che vorrebbe Trump). Non tutte le produzioni sono però trasferibili (si pensi all’agroalimentare) e anche quello che è trasferibile richiede tempo, economie di scala e investimenti iniziali, insomma non si decide dall’oggi al domani.
Per evitare le barriere tariffarie molte case automobilistiche europee per esempio già producono negli Usa (BMW e Volvo in South Carolina, Mercedes in Alabama), ma più spesso scelgono come destinazioni delle loro transplant paesi low cost che hanno (o avevano) accordi di libero scambio con gli Usa, come il Canada (Stellantis) o il Messico (Stellantis è anche in Messico con il marchio RAM, così come VW). Sono in Messico anche tutti i marchi giapponesi e coreani, più Ford e GM. Una delle ragioni della sospensione dei dazi sul Messico è che l’amministrazione aveva sottovalutato il fatto che gli americani adorano le auto e il Messico produce il 18%, circa 1 auto su cinque, delle auto vendute negli States. E se la Cina pagherà un dazio inferiore al Canada non è per caso. Quasi due terzi delle merci vendute su Amazon agli americani viene da lì.

Spostare gli impianti negli Usa conviene? Gli Stati Uniti non sono proprio un paese low cost, anche se l’energia costa molto meno che in Europa e anche se Trump agita la promessa (probabilmente irrealizzabile) di abbassare la corporate tax al 15%. Il dollaro si è apprezzato in termini reali sull’euro, dalla nascita di quest’ultimo, del 37 per cento, quindi difficilmente un industriale europeo sposterebbe una produzione negli Stati Uniti per evitare un dazio del 10 o anche del 25%, peraltro non su tutta la sua produzione, ma solo su quella esportata in America. Con il superdollaro anche il reshoring è destinato a restare una parola vuota. Gli incentivi dell’IRA (Inflation Reduction Act) di Joe Biden miravano esattamente a quello, e sarebbero stati efficaci per insediare in Usa stabilimenti che avessero venduto negli Usa. Ma Trump ha dichiarato che avrebbe cancellato l’IRA e l’avrebbe sostituito con i dazi. Meno spesa pubblica e più entrate nell’erario, secondo lui. Ma sarà proprio così? A dire il vero non proprio. Senza IRA il reshoring non ci sarà.

I dazi, del resto, sono uno strumento spuntato, che determina guerre, vendette e che non ha quasi mai funzionato. Le città greche si allearono in una guerra per distruggere Troia, che, posizionata all’ingresso del mar Nero, riscuoteva un dazio per passare lo stretto e commerciare. Nel 1930 la legge americana Smoot-Hawley Tariff Act mise dazi su 20.000 prodotti importati, e fu essa che concorse alla grande depressione del 1929, probabilmente in modo determinante. David Ricardo dimostrò che ridurre i dazi avvantaggia sia chi li abbatte sia chi esporta nel paese che li ha abbattuti. Alla fine, ridurre i dazi è un gioco a somma positiva. Elevarli è un gioco a somma negativa.
E non si pensi, come Trump agita, che grazie ai dazi smetterà di riscuotere le imposte sui redditi. Questo non è credibile allo stato attuale del bilancio delle entrate degli Stati Uniti d’America (tabella 2)

Le entrate del bilancio federale e dei bilanci statali e locali nel 2022

Elaborazione Mondo Economico

Su un Pil (2022) di 26494 miliardi, il prelievo era di 7258 miliardi e solo 89 miliardi (0,3% del PIL) erano dovuti ai dazi. Considerando che le importazioni totali erano 3300 miliardi di dollari con una tariffa media compresa tra il 10 e il 25% si incasserebbero 577 miliardi (sempre se le importazioni non cambiassero in volume). Se i dazi causassero un reindirezzamento dei flussi commerciali (probabile), la somma andrebbe divisa per 2 o anche più. Il che vuol dire che potrebbero contribuire con 1 punto percentuale di prelievi alle frontiere (rispetto al Pil), contro un prelievo medio del 27,4%, che dovrebbe salire di qui a poco, visto che gli Stati Uniti sono in deficit del 7,5% del Pil e stanno per toccare il debt ceiling. Questa sarà la prima doccia fredda per Donald Trump, di qui a pochissimi mesi, se non settimane. Dunque, i dazi non sostituiranno le imposte sui redditi. Gli americani continueranno a pagarle.

Nel frattempo, i dazi non saranno popolarissimi. Secondo le stime diffuse dal CBO (Congressual Budget Office, organo tecnico consultivo del Congresso) essi non solo causeranno una perdita del reddito reale dello 0,2% all’anno, ma causeranno l’aumento dei prezzi dei generi di consumo importati incidendo con un +0,4% sui prezzi delle PCE (Personal Consumption Expenditure), che è appunto l’indice dei prezzi che la Fed osserva per guidare la sua politica monetaria. Tra il primo effetto e il secondo, siamo a 1000 dollari americani per famiglia mediana. C’è da giurare che se ne accorgeranno perché gli americani odiano l’inflazione e hanno votato Trump imputando a Biden di non averla affrontata e fermata. Se questo accadesse è probabile che la Fed abbasserà il ritmo di riduzione dei tassi di interesse. Ciò farà bene al dollaro e renderà sconveniente spostare produzioni in America (risultato opposto al proposito), non farà bene alla Borsa e neppure agli investimenti nelle costruzioni e ai bilanci delle famiglie, sempre indebitate.

I dazi, quindi, avranno a nostro giudizio una vita temporanea. Fino alla conclusione di accordi bilaterali più soddisfacenti, davvero o in apparenza, per gli Stati Uniti.
Trump ha aggredito l’agenda della sua presidenza partendo dalla politica estera e in questo ha commesso una leggerezza. Biden era stato ritenuto debole proprio negli affari interni e sull’economia dei bilanci delle famiglie. E’ sul reddito e il costo della vita che gli americani valuteranno Trump. I dazi fanno molto chiasso, ma non gonfiano il portafoglio dell’americano mediano, quello che vorrebbe tornare al suo sogno, mentre sono venti anni che ai suoi sogni si sono sostituiti gli incubi di lavoretti mal pagati e debiti per sostenere gli studi dei figli. Tutta colpa del resto del mondo, dice Trump. Vedremo.