Presto un’altra grande società italiana potrebbe sparire dal listino della Borsa di Milano. Si tratta della Saras, che gestisce la raffineria di Sarroch in Sardegna. Un impianto della capacità di 300 mila barili al giorno, in eccellente posizione strategica nel Mediterraneo, fondato da Angelo Moratti nel 1962. La società ha infatti voltato pagina, finendo nell’orbita della Vitol, un gruppo energetico svizzero olandese, con un fiorente giro d’affari di circa 500 miliardi di dollari all’anno.

Non ci permettiamo di discutere l’aspetto industriale dell’operazione, perché entrare nel portafoglio di un’industria energetica globale potrebbe addirittura migliorare le prospettive industriali e fugare i timori, al momento legittimi, di ferite occupazionali.

Dispiace invece la ferita che si aprirà, ancora una volta, nella Borsa Italiana. Già la Borsa italiana ha qualche peccatuccio da farsi perdonare. Una eccessiva concentrazione in alcuni titoli; una leggerissima quota di public company (ossia di imprese ad azionariato diffuso), che sarebbero il 13% contro l’80% negli Stati Uniti. Poi c’è la questione del flottante: ossia della percentuale del capitale da cedere sul mercato al momento della quotazione e che garantisce la liquidità dei titoli. In Italia è pochino. Su euronext-Milano basta il 10 per cento del capitale. Ai veri investitori globali piacciono invece le società scalabili, quelle ad azionariato diffuso, con un ampio flottante sul mercato, come Microsoft, Apple e altre. E sono quelle che Milano quasi non possiede, diremmo ostinatamente, condannando la piazza di una città europea ad essere un luogo finanziario tutto sommato marginale. Verrebbe da chiedersi: perché?

Tra l’altro, in questi anni e mesi le società cercano di convincere gli azionisti (i piccoli azionisti, ossia i risparmiatori) della propria responsabilità sociale, facendosi certificandosi le proprie qualità ESG, mentre continuano a non essere convincenti i dati fondamentali della Borsa italiana, che è sempre stata utilizzata più per raccogliere finanziamenti presso il pubblico che per distribuire allo stesso le soddisfazioni degli investimenti.

Le conseguenze dell'operazione appena conclusa - che, ripetiamo, industrialmente sarebbe ineccepibile -  porteranno al delisting della Saras, con scarsa soddisfazione per le migliaia di piccoli risparmiatori che avevano aderito al collocamento intorno ai 6 euro e che realizzeranno probabilmente 1,75 euro per azione. Anche calcolando i dividendi nel frattempo incassati, l’operazione per i piccoli azionisti si chiuderà in perdita.

Nei fatti, il delisting evidenzierà l’esistenza di due categorie di azionisti. Quelli originari e che hanno già realizzato una buona valutazione con il collocamento al pubblico e la maggioranza di questi ultimi che si accontenteranno di quello che passerà il convento di qui a poco.

Trattare così la Borsa, da parte di diversi esponenti del capitalismo italiano, non giova veramente che a pochi. La Borsa è uno dei mercati finanziari. Non il maggiore, ma non il più trascurabile. Il mercato creditizio è il più importante e possiamo riconoscere che, dopo i cambiamenti avvenuti nei decenni, il sistema bancario italiano non sfigura nel panorama europeo. Il mercato delle quote di proprietà delle società di capitali è invece la Borsa, quanto meno il mercato aperto al pubblico. Una Borsa adulta sarebbe più attraente per le piccole e medie imprese; sarebbe un formidabile canale di finanziamento di tanti progetti di investimento a lungo termine con difficoltà a essere bancabili; potrebbe convogliare risorse degli investitori istituzionali, come i fondi pensione, verso gli investimenti produttivi e i posti di lavoro, mentre come è noto i fondi pensione italiani preferiscono limitare il loro investimento azionario domestico. Non gli si può davvero dare torto. Wall Street è inoltre un gigantesco attrattore di risparmio del resto del mondo che si investe negli Stati Uniti. Si dirà che il risparmio italiano è sufficiente, visto le proverbiali qualità degli italiani, ma non è vero, perché molto di quel risparmio è assorbito dal finanziamento del debito pubblico.

Spesso si è citato il modello del capitalismo famigliare come un modello alternativo a quello della Borsa. Ci pare che non sia così. Una Borsa grande ed efficiente aumenterebbe le opportunità di investimento anche delle famiglie imprenditrici e ridurrebbe le tentazioni ricorrenti di usare la Borsa come un rubinetto finanziario opportunistico. Ecco, una buona Borsa dove ci fossero più azioni di public companies quotate farebbe la differenza e i primi a tenerci dovrebbero essere gli esponenti di spicco del capitalismo italiano.

A mo’ di esempio abbiamo fatto l’esercizio di mettere a confronto il rapporto tra gli indici di Borsa e il Pil americano e italiano.

Base 2003=1 per entrambe le serie. Per l’Italia FTSE-ALL e per gli USA il Dow Jones Composite. Elaborazione Mondo Economico su dati Istat, Investing.com, OECD Stat

In termini di numero indice, dal 2003 ad oggi (sono passati venti anni), il rapporto americano è passato da 1 a 2, mentre quello italiano, dopo una ascesa iniziale, è ridisceso ed è sotto l’unità, avendo pagato meno dividendi della Borsa americana e avendo a denominatore una crescita del Pil largamente inferiore.

Una Borsa come quella italiana non è appetibile, non fa crescere l’economia, non fa crescere la ricchezza degli italiani. Cosa aspettiamo a esprimere con un colpo di reni un cambiamento vero? In fondo, la crescita generale dell’economia non va così bene da poterne fare a meno.

 

Fonte immagine copertina: imagoeconomica.it