La riduzione degli sprechi alimentari è una delle questioni più sentite nella società moderna, ma i margini di miglioramento sono ancora ampi
Un'immagine piuttosto suggestiva ben sintetizza le contraddizioni strutturali del nostro pianeta globalizzato e in affannosa crescita: lo spreco di cibo, prodotto ma non consumato ogni anno nel mondo, equivale a un volume di acqua pari al flusso annuo di un fiume come il Volga (il più lungo d'Europa).
Per essere più prosaici, utilizza 1,4 miliardi di ettari di terreno, quasi il 30 per cento della superficie agricola mondiale, e produce 3,3 miliardi di tonnellate di gas serra: le conseguenze economiche dirette di questi sprechi si aggirerebbero intorno ai 750 miliardi di dollari l'anno (esclusi pesci e frutti di mare).
Questi dati risalgono al rapporto della FAO del 2013, Food Wastage Footprint: Impacts on Natural Resources , il primo ad analizzare l'impatto delle perdite alimentari (1,3 miliardi di tonnellate di cibo l'anno!) dal punto di vista ambientale, e le conseguenze che ne derivano per il clima, le risorse idriche, l'utilizzo del territorio e la biodiversità.
Secondo lo studio FAO, il 54 per cento degli sprechi alimentari si verificano "a monte", in fase di produzione, raccolta e stoccaggio, prevalentemente nei paesi in via di sviluppo, mentre il 46 per cento avviene "a valle", nelle fasi di trasformazione, distribuzione e consumo, in gran parte nelle regioni a medio e alto reddito (Figura 1).
In particolare, l'Asia brilla per lo spreco di cereali e riso, con forti ripercussioni sulle emissioni di carbonio e metano, sulle risorse idriche e sull'uso del suolo.
Lo spreco di carne è basso ovunque a livello di consumatori, ma il settore di per sé genera viceversa un notevole impatto sull'ambiente, in particolare nei paesi ad alto reddito e in America Latina, che insieme sono responsabili dell'80 per cento di tutti gli sprechi di carne.
In Asia, America Latina ed Europa lo spreco di frutta contribuisce in modo significativo al consumo di risorse idriche, e allo stesso modo l'alto spreco di verdure in Asia, Europa, Sud e Sud-Est asiatico genera elevate emissioni di carbonio per tale settore.
Le cause delle perdite alimentari (Figura 2) nelle società opulente sono soprattutto il comportamento dei consumatori e la mancanza di comunicazione lungo la catena di approvvigionamento. I consumatori non riescono a pianificare i propri acquisti, comprano più cibo del necessario, o interpretano in modo errato l'etichetta "da consumarsi entro", mentre eccessivi standard di qualità ed estetici portano i rivenditori a respingere grandi quantità di cibo perfettamente commestibili.
Nei paesi in via di sviluppo, le perdite avvengono principalmente nella fase post-raccolto, a causa delle limitate risorse finanziarie e strutturali nelle tecniche di raccolto, di stoccaggio e nelle infrastrutture di trasporto, oltre alle condizioni climatiche poco favorevoli alla conservazione degli alimenti. Si calcola che circa l'80 per cento di cibo sprecato sarebbe in teoria ancora consumabile.
Per quanto riguarda l'Italia, possiamo farci un'idea del fenomeno grazie al Rapporto 2014 Waste Watcher - Knowledge for Expo, recentemente presentato proprio in occasione dell'Expo di Milano (ideato da Last Minute Market, spin off dell'Università di Bologna, in collaborazione con SWG, società di ricerche di mercato, e il Dipartimento di Scienze e Tecnologie agroalimentari dell'Università di Bologna (DISTAL).
L'indagine si basa su una ricerca di tipo socio-economico basata non su dati oggettivi, ma su opinioni e percezioni di un campione di 1500 soggetti in cinque diversi ambiti: l'approccio allo spreco alimentare, le abitudini alimentari degli italiani, la misurazione dello spreco domestico, gli strumenti per contrastarlo e il profilo dei nuclei familiari tra attenzione e disattenzione allo spreco.
La riduzione dello spreco, in tutte le sue forme, non solo quello alimentare, è risultata la questione più sentita, come prevedibile data la congiuntura in cui viviamo. L'ambito alimentare viene però visto al primo posto assoluto (Figura 3), per quanto le definizioni date varino da persona a persona (Figura 4).
Le abitudini alimentari segnalano un livello di consapevolezza e maturità finalmente abbastanza elevato, pur con ampi margini di miglioramento, dato che è significativo lo scostamento fra la sopravalutazione di quanto si crede di sapere rispetto a quanto in realtà si sa, ad esempio in materia di etichette.
Resta però ancora relativamente alto il numero di coloro che ritengono che la quantità di cibo buttato non sia in fondo così preoccupante (ben il 43 per cento).
Volendo quantificare il fenomeno, i dati sono tuttora critici, pur se in lieve calo rispetto all'anno precedente (un calo forse legato al contemporaneo calo dei consumi alimentari del 5 per cento nel 2014 rispetto al 2013): 630 grammi alla settimana per nucleo familiare, per un valore di 6,5 euro (Figura 5), cifre che portano lo spreco domestico complessivo nel nostro paese a 8,1 milioni di euro all'anno. Il 55 per cento confessa di buttare avanzi di cibo quasi ogni giorno. Sostanzialmente, in base alle risposte ottenute, sono state identificate un'area attenta agli sprechi, che si attesta al 59 per cento, e un'area degli sprechi per un significativo 41 per cento.
Un'anomalia si registra nel comportamento degli stranieri residenti nel nostro paese: solitamente costoro tendono a sprecare meno degli autoctoni ( per esempio, i latino americani negli Stati Uniti circa il 25 per cento in meno), ma il rapporto attribuisce viceversa loro un 25 per cento in più di sprechi.
E' interessante notare che lo spreco domestico in Italia pare di gran lunga inferiore rispetto a quello rilevato in molti altri paesi europei (Figura 6), dove però, oltre al questionario, sono stati utilizzati anche diari e quantificazione dei rifiuti nel bidone della spazzatura (strumenti che tendono quasi a raddoppiare i risultati).
Le misure da adottare sono ormai da tempo note e le tecnologie non mancano: istruzione fin dalle scuole, informazione, imballaggi intelligenti, frigoriferi controllabili attraverso display o con sistemi di gestione delle temperature, e soprattutto le questioni inerenti all'etichettatura e al rapporto tra scadenza e consumo.
Per affrontare il problema, la FAO ha individuato tre livelli su cui è necessario intervenire:
• La riduzione degli sprechi dovrebbe diventare una priorità. Limitando le perdite produttive delle aziende agricole dovute a cattive pratiche e bilanciando meglio la produzione con la domanda si eviterebbe l'eccessivo consumo di risorse naturali per la produzione di cibo non necessario.
• In caso di eccedenze alimentari, il riutilizzo all'interno della catena alimentare umana - la ricerca di mercati secondari o la donazione del cibo eccedente ai membri più vulnerabili della società - rappresenta l'opzione migliore. Se il cibo non è idoneo al consumo umano, la seconda alternativa è quella di destinare il cibo non utilizzato all'alimentazione del bestiame, preservando risorse che sarebbero altrimenti utilizzate per produrre mangimi commerciali.
• Laddove il riutilizzo non fosse possibile, si dovrebbe pensare a riciclare e recuperare l'eccedenza di cibo: riciclaggio dei sottoprodotti, decomposizione anaerobica, elaborazione dei composti e l'incenerimento, con recupero di energia rispetto all'eliminazione nelle discariche. (Il cibo non consumato che finisce per marcire nelle discariche è per altro un grande produttore di metano, gas serra particolarmente dannoso).
Come ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, visitando Expo nella Giornata mondiale per l'Ambiente, "lo spreco di cibo è un insulto alla società [...] la cultura dello scarto e del consumo illimitato non si concilia più con il futuro possibile, né con lo sviluppo economico. È questa la novità del nostro tempo. Uscire dalla crisi vuol dire saper innovare e cambiare rotta".
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