La norma può aiutare, ma certamente non basta. Il fatto è che in Val Susa il problema non è solo di norme e non è nemmeno solo di polizia. Ciò che rende pericolosa la situazione è un mix di elementi: la tradizione ancora viva dell'anarchismo e di una sinistra "antica" (ultima incarnazione, il terrorismo delle Br e di Prima Linea) che giustifica il ricorso alla violenza si accompagna alle infiltrazioni della criminalità organizzata, favorite a suo tempo dal meccanismo dei soggiorni obbligati; nell'era dei social network, la diffidenza e la chiusura di una certa cultura "montagnina" si sommano alla visibilità globale del brand "no-TAV"; la poca trasparenza, durata anni, delle (mutevoli) scelte delle Ferrovie sui tracciati ha reso a questo punto impossibile usare perfino il termine "compensazioni", ossia ciò che (come l'esperienza francese dimostra) consente fin dall'inizio di coinvolgere e rassicurare le comunità interessate dall'impatto delle grandi opere pubbliche.

Riprendere uno a uno questi fili, disinnescare la "bomba" sociale e culturale prima ancora che di ordine pubblico non è compito della polizia, che pure finora ha gestito con senso della misura e del dovere una situazione sempre sull'orlo dell'incattivimento ulteriore (il rischio è pure che dalla guerriglia si passi agli attentati). È compito delle istituzioni e delle forze politiche, chiamate a un impegno molto più esplicito di quello che c'è stato finora: non solo a Roma o a Torino (che, paradossalmente, in questo caso è lontanissima da Chiomonte), ma sul territorio valsusino. Un impegno che dissipi timori e diffidenze, certamente, ma anche quell'eccesso di ambiguità e opacità degli amministratori locali che, troppo spesso, appaiono se non complici, senza dubbio intimiditi.

A questo punto non c'è alternativa: o è vero, come sostengono i sindaci della Valle, che il movimento pacifico no TAV controlla il territorio, e allora non si capisce come vengano tollerate le presenze violente organizzate; o non è vero, ma allora da queste presenze occorrerebbe prendere le distanze in maniera assai più netta di quel che accade oggi.

La Valle Susa, in realtà, rappresenta un brutto esempio di una situazione complessiva italiana: la perdita di rappresentatività e di senso di responsabilità da parte di pezzi interi di classe dirigente, nazionale e locale. L'affermazione proterva e disperata del "non ci rappresenta nessuno" tipica dei no Tav è il precipitato grezzo ma durissimo di questa incapacità complessiva, di questa complessiva perdita di futuro.