Lo sappiamo ma spesso ce lo scordiamo: è esistita un’America che non era impero. Che non era colonia - cioè prolungamento separato di un’altra nazione - ma neanche colonizzatrice, e non in senso spregiativo, ma significando tutta la fatica, lo sforzo, la responsabilità, le colpe e l’orgoglio di esportare il proprio modello di vita.
È esistita un’America, prima del Novecento, che era Nazione fra le Nazioni, con una dottrina di politica estera segnata dal principio della “non-intrusione” nei fatti che riguardavano gli altri continenti (anche se con una pesante contraddizione, l’ingerenza negli affari del proprio continente); con un posto “normale” nel mondo, né dominatrice né dominata; con una fiorente vita culturale innestata nel confronto con le proprie radici anglosassoni, già notata da Tocqueville. Un’America i cui cittadini potevano viaggiare nel globo senza complessi di superiorità, o di vergogna, o di tutti e due insieme.
Non è ben chiaro se questa “normalità” sia destinata a restare solo una nostalgia irrazionale di un mondo che non c’è più oppure se possa diventare un traguardo di tipo politico.
Il Partito repubblicano, il Grand Old Party, si appresta in questi giorni a definire la corsa alle primarie. Dopo il testa a testa Romney-Santorum vinto di misura dal primo nel caucus in Iowa (una sorta di sondaggio), in questo mese ci saranno i confronti in New Hampshire, South Carolina e Florida. E sarà la prova decisiva soprattutto per il terzo arrivato nelle primarie dell’Iowa, Ron Paul, il maggiore avvocato di quel “ritorno alla normalità” di cui si parlava e che dopo Santorum è la maggior sorpresa, posto che ha distanziato di dieci punti percentuali Gingrich, che alla vigilia pareva l’unico vero avversario di Romney.
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