Lo sappiamo ma spesso ce lo scordiamo: è esistita un’America che non era impero. Che non era colonia - cioè prolungamento separato di un’altra nazione - ma neanche colonizzatrice, e non in senso spregiativo, ma significando tutta la fatica, lo sforzo, la responsabilità, le colpe e l’orgoglio di esportare il proprio modello di vita.

È esistita un’America, prima del Novecento, che era Nazione fra le Nazioni, con una dottrina di politica estera segnata dal principio della “non-intrusione” nei fatti che riguardavano gli altri continenti (anche se con una pesante contraddizione, l’ingerenza negli affari del proprio continente); con un posto “normale” nel mondo, né dominatrice né dominata; con una fiorente vita culturale innestata nel confronto con le proprie radici anglosassoni, già notata da Tocqueville. Un’America i cui cittadini potevano viaggiare nel globo senza complessi di superiorità, o di vergogna, o di tutti e due insieme.

Non è ben chiaro se questa “normalità” sia destinata a restare solo una nostalgia irrazionale di un mondo che non c’è più oppure se possa diventare un traguardo di tipo politico.

Il Partito repubblicano, il Grand Old Party, si appresta in questi giorni a definire la corsa alle primarie. Dopo il testa a testa Romney-Santorum vinto di misura dal primo nel caucus in Iowa (una sorta di sondaggio), in questo mese ci saranno i confronti in New Hampshire, South Carolina e Florida. E sarà la prova decisiva soprattutto per il terzo arrivato nelle primarie dell’Iowa, Ron Paul, il maggiore avvocato di quel “ritorno alla normalità” di cui si parlava e che dopo Santorum è la maggior sorpresa, posto che ha distanziato di dieci punti percentuali Gingrich, che alla vigilia pareva l’unico vero avversario di Romney.


Conservatore libertario, Paul è un anziano rispetto al resto del gruppo dei candidati, avendo già disputato la gara quattro anni fa. La sua è una voce minoritaria ma squillante in un partito tutto preso dall’ossessione di chi sia, tra Gingrich, Santorum, o Perry, il reaganiano più ortodosso, il più fedele prosecutore e custode delle idee del presidente californiano. As usual, verrebbe da dire. Ma la campagna di Paul sta andando bene e l’Iowa lo dimostra: la maturità e la dimestichezza con le platee, la moderazione e l’innegabile wittiness danno alla sua candidatura un peso e una autorevolezza che gli altri non hanno, persino quando dice cose oggettivamente durissime. In questo, somiglia a Reagan, sebbene non nello statuto ideologico, ma nel tratto personale.

Paul, padre intellettuale del movimento Tea Party, ha sfidato il verbo reaganiano. Lo scorso settembre, durante uno dei (tantissimi) dibattiti del GOP, riferendosi all’ex Presidente ha detto: “sono stato tra i primi a sostenerlo, il suo messaggio era grande, ma le conseguenze – dobbiamo essere onesti con noi stessi – non sono state così grandi: un deficit gigantesco, abbiamo speso troppo, abbiamo tassato troppo, abbiamo costruito un debito immenso”. Paul ha proseguito con un’obiezione altrettanto ardita: un’efficiente difesa strategica non significa necessariamente spendere immense cifre nel personale e nell’armamento militare. Gli Stati Uniti hanno il dovere di difendersi, ma non possono pensare di continuare a mantenere una presenza così massiccia e dispendiosa in mille scenari internazionali.

Non è un’idea nuova, ma sono nuove le ragioni che la sostengono.


Paul, avvocato del grande ritorno alla normalità, in altri tempi sarebbe stato bollato come un isolazionista (e lo è, in effetti) e liquidato in quattro e quattr’otto. Di isolazionisti, in fondo, se ne sono visti molti. L’intera storia del Partito repubblicano nel corso del Novecento è la storia della battaglia tra coloro che credono nella bontà e necessità dell’intervento americano nel mondo e coloro che ne reclamano la non intrusione. In una catena ideale che va dai presidenti dei roaring twenties Harding, Coolidge e Hoover, agli oppositori di Roosevelt, al senatore Robert Taft che tentò di candidarsi nel 1948. Tuttavia, più il “secolo breve” entrava nel vivo e che il ruolo imperiale degli USA si faceva inevitabile e più gli isolazionisti sono diventati nel Partito una minoranza.

La loro posizione sembrava (era?) irrazionale e antistorica. Ottocentesca: ritirarsi, nell’epoca del confronto con la Germania hitleriana e poi con la potenza sovietica, equivaleva a suicidarsi. Il GOP divenne il partito di Eisenhower (prima che presidente, generale dell’esercito americano nella Guerra mondiale), dell’aggressivo Goldwater, del big defense spending, di Nixon e delle sue ambizioni internazionali, e mai come allora politica estera ed economia apparvero così intimamente legate. La dottrina reaganiana, passata alla storia come l’apogeo del liberismo, in realtà consentiva (ed esigeva) una spesa pubblica nel settore militare come nessun liberista del passato avrebbe mai tollerato. La sua caratteristica era soltanto arrivarci attraverso uno strumento diverso dalla tassazione eccessiva: il deficit. Debito, debito, debito.

Contro tutto questo si scaglia oggi Ron Paul. La sua candidatura va valutata proprio pensando che i tempi sono molto cambiati da quando Ronnie il californiano sedeva alla Casa Bianca, per non dire Kennedy o Truman. L’America non è più al centro del mondo, la sua potenza, seppur gradualmente, declina in modo visibile, il suo ruolo di guardiano della sicurezza collettiva si va esaurendo (le rivolte arabe ne sono state, forse, la prova). Intorno al 2025, scrive Jacques Attali, la California cesserà di essere il cuore mercantile dell’impero americano e non è detto che ci sarà un nuovo impero da qualche altra parte del mondo, segnando la fine dell’epoca degli imperi.


Impero: anche questo oneroso fardello prima o poi verrà scaricato, e l’impressione è che, sotto sotto, quasi inconfessabilmente, sono ormai molti gli americani a desiderarlo. Il Novecento, il secolo “moderno e antimoderno” di cui parla Cesare De Michelis, è stato anche un grande fardello. Un’immensa lotta contro gli altri e contro se stessi, un’epopea di avanzamento e un incubo fatto di tanti salti nel buio. Italiani e tedeschi, ebrei e armeni, spagnoli e cinesi, russi e arabi. È stato un fardello soprattutto per gli americani, il secolo magnifico e tremendo nel quale la potenza statunitense è diventata impero globale. Come nel romanzo di Philip Roth Pastorale Americana, le angosce, i dilemmi, il senso spettrale di quel ruolo sono albergate nel cuore di ogni singolo americano, anche inconsciamente, anche senza che se ne rendesse davvero conto.

Contro le eresie sconcertanti di Ron Paul (“è ovvio che gli islamisti ci attacchino, come reagiremmo noi se i cinesi ci invadessero?”) si alzano gli scudi dei colleghi di partito. Rick Santorum, all’ultimo dibattito televisivo, gli ha risposto di petto, ri-elencando tutti i punti fermi della dottrina “eccezionalista” americana. Ma ha commesso un errore, che il risultato dell’Iowa non consente di minimizzare: Paul, e con lui molti elettori, non è contrario all’idea che l’America sia una splendida eccezione nella storia. Solo, crede che questa eccezione non si declini necessariamente in una costosa macchina bellica. Il candidato libertario è sempre più apprezzato da quanti non vedono nella fine dell’impero americano la fine dell’America – come in una sorta di giorno del Giudizio, popolato di selvaggi e cannibali, che Cormac McCarthy ha in qualche modo preconizzato in “The Road” – ma il ritorno, difficile e rasserenante, a una normalità.