Conservatore libertario, Paul è un anziano rispetto al resto del gruppo dei candidati, avendo già disputato la gara quattro anni fa. La sua è una voce minoritaria ma squillante in un partito tutto preso dall’ossessione di chi sia, tra Gingrich, Santorum, o Perry, il reaganiano più ortodosso, il più fedele prosecutore e custode delle idee del presidente californiano. As usual, verrebbe da dire. Ma la campagna di Paul sta andando bene e l’Iowa lo dimostra: la maturità e la dimestichezza con le platee, la moderazione e l’innegabile wittiness danno alla sua candidatura un peso e una autorevolezza che gli altri non hanno, persino quando dice cose oggettivamente durissime. In questo, somiglia a Reagan, sebbene non nello statuto ideologico, ma nel tratto personale.

Paul, padre intellettuale del movimento Tea Party, ha sfidato il verbo reaganiano. Lo scorso settembre, durante uno dei (tantissimi) dibattiti del GOP, riferendosi all’ex Presidente ha detto: “sono stato tra i primi a sostenerlo, il suo messaggio era grande, ma le conseguenze – dobbiamo essere onesti con noi stessi – non sono state così grandi: un deficit gigantesco, abbiamo speso troppo, abbiamo tassato troppo, abbiamo costruito un debito immenso”. Paul ha proseguito con un’obiezione altrettanto ardita: un’efficiente difesa strategica non significa necessariamente spendere immense cifre nel personale e nell’armamento militare. Gli Stati Uniti hanno il dovere di difendersi, ma non possono pensare di continuare a mantenere una presenza così massiccia e dispendiosa in mille scenari internazionali.

Non è un’idea nuova, ma sono nuove le ragioni che la sostengono.