Impero: anche questo oneroso fardello prima o poi verrà scaricato, e l’impressione è che, sotto sotto, quasi inconfessabilmente, sono ormai molti gli americani a desiderarlo. Il Novecento, il secolo “moderno e antimoderno” di cui parla Cesare De Michelis, è stato anche un grande fardello. Un’immensa lotta contro gli altri e contro se stessi, un’epopea di avanzamento e un incubo fatto di tanti salti nel buio. Italiani e tedeschi, ebrei e armeni, spagnoli e cinesi, russi e arabi. È stato un fardello soprattutto per gli americani, il secolo magnifico e tremendo nel quale la potenza statunitense è diventata impero globale. Come nel romanzo di Philip Roth Pastorale Americana, le angosce, i dilemmi, il senso spettrale di quel ruolo sono albergate nel cuore di ogni singolo americano, anche inconsciamente, anche senza che se ne rendesse davvero conto.
Contro le eresie sconcertanti di Ron Paul (“è ovvio che gli islamisti ci attacchino, come reagiremmo noi se i cinesi ci invadessero?”) si alzano gli scudi dei colleghi di partito. Rick Santorum, all’ultimo dibattito televisivo, gli ha risposto di petto, ri-elencando tutti i punti fermi della dottrina “eccezionalista” americana. Ma ha commesso un errore, che il risultato dell’Iowa non consente di minimizzare: Paul, e con lui molti elettori, non è contrario all’idea che l’America sia una splendida eccezione nella storia. Solo, crede che questa eccezione non si declini necessariamente in una costosa macchina bellica. Il candidato libertario è sempre più apprezzato da quanti non vedono nella fine dell’impero americano la fine dell’America – come in una sorta di giorno del Giudizio, popolato di selvaggi e cannibali, che Cormac McCarthy ha in qualche modo preconizzato in “The Road” – ma il ritorno, difficile e rasserenante, a una normalità.
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