Nel bel libro di Gianni Granzotto “Annibale” si sostiene che ci separano dal condottiero cartaginese circa 60 generazioni, che non sono poi molte. “Hannibal ad portas” (Annibale alle porte), ossia la fine incombente di Roma repubblicana, era il grido di terrore che ci viene consegnato da quell’epoca di grande paura.

Il pensiero successivo va quasi automaticamente alla figura che Roma aveva messo in campo per contrastare l’emergenza militare e il rischio della fine della civiltà rappresentati da Annibale, vale a dire il dictator, nel caso nostro Quinto Fabio Massimo, passato alla storia come il temporeggiatore.

Si legge in un testo classico “Storia di Roma”, Editori Riuniti, di Sergej Ivanovic Kovaliov che “la dittatura era una magistratura di carattere temporaneo e straordinario. Ad essa si ricorreva solamente in casi speciali, quando lo Stato era minacciato da un estremo pericolo a causa di nemici esterno o disordini interni. Di regola, la decisione di nominare il dittatore spettava al senato e, alla procedura di nomina, presenziava uno dei consoli. Il dittatore, a sua volta si sceglieva un aiutante, capo della cavalleria. I poteri del dittatore duravano non più di sei mesi; dopo di che egli doveva cessare dalla carica. Il dittatore riuniva i poteri militari e civili, ma solo per il periodo di tempo stabilito per il suo compito. Gli altri funzionari rimanevano in carica anche durante la dittatura svolgendo il lavoro di ordinaria amministrazione”.


Il dato storico ci consente un confronto puramente intellettuale con i giorni che adesso ci accompagnano, con la crisi finanziaria che ha stretto l’Italia nella morsa che conosciamo e con la formazione di un governo tecnico, su impulso del Presidente della Repubblica, che sta realizzando riforme e tassazioni che hanno sapore emergenziale e che dichiaratamente sono state prese per tenere lontana una crisi drammatica.

Non è in discussione, ovviamente, il quadro democratico in cui si è mossa la scelta istituzionale, ma più che nel caso di altri governi tecnici del passato, questa situazione ha posto l’accento su un’inefficienza del nostro sistema politico - che si può definire storica (posto che certamente alcuni gravi pesi di oggi non sono di recente formazione) - rispetto alla concreta capacità di saper governare il Paese anche in una situazione di grave emergenza. In altre parole, il sistema politico avrebbe dovuto avere la capacità politica e decisionale di sapere affrontare una situazione di crisi e di porre in essere le misure necessarie senza ricorrere al criterio dettato dall’emergenza, ossia il timore di una prossima e irreversibile catastrofe.

Pur di fronte alla grave situazione internazionale che viviamo, l’attuale “commissariamento” della politica parla invece di fallimento della stessa e della sua resa.

Qui non si vuole entrare nella polemica se dopo le dimissioni di Berlusconi fosse il caso o meno di imboccare la strada delle elezioni anticipate, e anzi si può dire che, date le condizioni, la scelta operata dal Capo dello Stato probabilmente è stata la migliore. Si vuole, invece, porre il problema di come si potrà uscire da questo “commissariamento” politico, riprendendo un dibattito che fino a poco tempo fa sembrava non essere nelle condizioni di risolvere la contingenza drammatica del Paese.


Nella “terza repubblica” che ci attende la politica dovrà riprendere il suo terreno con un’agenda e un programma, anche tecnico. I vari schieramenti politici, che richiederanno domani il consenso elettorale, dovranno fare i conti con le riforme varate dal governo Monti, istituzionalmente chiamato a fare scelte anche impopolari e dolorose. Scelte che non rispondono a un programma elettorale, ma che dovranno essere approvate da un Parlamento composto da schieramenti sino a ora contrapposti in termini di idee e programmi.

Nel prossimo futuro, poi, i “politici” dovranno ripresentarsi agli elettori per spiegare le scelte fatte (anche) in questo periodo e chiederne il consenso sulla base di progetti che si differenzino da quelli dei competitori. Nella speranza che il tutto non si riduca a una sfida “di principi”, giocata sul piano squisitamente ideologico.

Il problema è aperto e, si crede, non sarà di facile soluzione. Né la storia romana è d’aiuto: nella Roma repubblicana il bipolarismo non esisteva.

Certo, potremmo fare conto sul nostro provvidenziale stellone, ma non si può non richiamare al riguardo Giuseppe Tomasi di Lampedusa che nel suo “Gattopardo” fa dire al generale Pallavicino: “C’è lo stellone, si dice. Sarà. Ma lei sa meglio di me, Principe, che le stelle fisse, veramente fisse non sono”.