Per prima cosa, proviamo a capire quello che stava accadendo nei mercati finanziari prima della crisi araba e giapponese. Solo dopo inseriamo nel ragionamento la doppia crisi. Infine, mostriamo il ragionamento sul debito pubblico statunitense. A quel punto, tiriamo le somme.
I mercati prima della doppia crisi
I grandi operatori statunitensi – misurati attraverso l’entità minima dei contratti sui futures azionari – erano in media «corti», ossia avevano delle posizioni dove si guadagna se i mercati cadono, nell’agosto del 2010. Poi, in seguito all’annuncio della politica monetaria «non ortodossa» – quella in cui la banca centrale non opera solamente attraverso i tassi di interesse, ma compra anche il debito pubblico – hanno capovolto le posizioni. Da «corti» sono diventati «lunghi», ossia avevano delle posizioni dove si guadagna se i mercati salgono, fino a dicembre del 2010. Da allora hanno capovolto ancora le proprie posizioni e sono diventati «corti» – quindi, ben prima della crisi araba e giapponese. Al contrario, i piccoli operatori – misurati attraverso l’entità minima dei contratti sui futures azionari – sono diventati «lunghi» nel corso del 2011 (1).
Un altro mercato sofisticato è quello delle opzioni, laddove si vede che la volatilità «normale» è prima scesa e poi salita, ma senza grandi escursioni, mentre quella «anomala» è salita con forza, sempre da agosto del 2010 (2). Traduzione «pratica» degli andamenti divaricati: i traders di opzioni si aspettano un andamento tranquillo che però potrebbe essere squarciato da eventi improvvisi e violenti.
Prima conclusione: i mercati azionari – se osservati nella loro componente più sofisticata, i futures e le opzioni – erano scettici da prima della crisi araba e giapponese.
La doppia crisi
Poi arriva la crisi araba, che da un punto di vista economico rileva solo se, andando a toccare l’Arabia Saudita, spinge in alto e per un periodo prolungato il prezzo del petrolio. Intorno a 135 dollari al barile si ha un prezzo dell’energia generatore di crisi. Finora questo non è accaduto.
Infine arriva la crisi giapponese. Un terremoto distrugge una parte del capitale fisico di un paese. Questo va ricostituito e dunque si ha lavoro per il settore delle costruzioni. Gli effetti sul Pil sono inizialmente negativi, poi le cose si stabilizzano. Un terremoto si ripercuote negativamente sulle imprese di assicurazione e riassicurazione, ma, se non è un evento di dimensioni epiche, le riserve di queste ultime sono sufficienti. Un terremoto aumenta la spesa pubblica per la ricostruzione, intanto che le zone colpite pagano meno imposte per effetto della caduta della loro attività. Aumentano quindi il deficit pubblico e il debito. Infine, un paese esportatore di capitali potrebbe trattenerne una parte per la ricostruzione e quindi il suo cambio potrebbe salire. In Giappone dovremmo perciò avere una borsa con il settore delle costruzioni forte e quello delle assicurazioni debole, un leggero rialzo dei rendimenti del debito pubblico, un cambio dello yen più forte (4). La borsa giapponese è flessa, la volatilità attesa è salita, ma meno di quanto fosse salita ai tempi di Lehman (5). Segno che un disastro nucleare per ora è ritenuto poco probabile.
Seconda conclusione: i mercati azionari – se osservati nella loro componente più sofisticata, i futures e le opzioni – erano scettici da prima della crisi araba e giapponese. La crisi araba per ora non ha prodotto un prezzo del petrolio foriero di crisi, e la crisi giapponese, se privata del risvolto della contaminazione nucleare, non ha avuto un impatto degno di nota.
Il Quantitative Easing 2 e la politica fiscale
Abbiamo affermato che i mercati azionari sono girati nell’agosto del 2010. Fino a quel momento erano allo stesso livello dell’inizio dell’anno, o anche sotto. E sono girati perché la banca centrale statunitense ha annunciato l’acquisto di titoli del Tesoro. Come mai la banca centrale degli Stati Uniti si è messa a comprare debito pubblico? (6). Si capiva già in primavera che, con le elezioni di mid-term, sarebbe cambiato l’equilibrio politico. I Democratici – sebbene indeboliti – non avrebbero acconsentito al taglio della spesa pubblica, mentre i Repubblicani – in ascesa – non avrebbero acconsentito al rialzo delle imposte. Ergo, il deficit pubblico sarebbe rimasto com’era. In realtà, secondo le ultime proiezioni è aumentato. Il deficit è finanziato con l’emissione di obbligazioni. La sottoscrizione del nuovo debito forse si sarebbe potuta avere solo offrendo rendimenti maggiori.
È ragionevole affermare che il debito pubblico statunitense ha un prezzo maggiore (un rendimento minore) di quello che altrimenti avrebbe, se fosse sottoscritto solo dai privati timorosi del «rischio tasso». Un debito pubblico come quello statunitense, che cresce più di quanto cresca l’economia, prima o poi sarà sottoscritto con rendimenti maggiori. I modesti rendimenti di oggi sono incongrui, ma sono tenuti bassi dall’intervento della banca centrale. Vera la premessa, segue che il rendimento delle obbligazioni private e dei mutui ipotecari è minore di quello che altrimenti sarebbe, e che le azioni hanno un prezzo maggiore di quello che altrimenti avrebbero.
La banca centrale dichiara che comprerà 900 miliardi di debito pubblico. Il nome dell’operazione è Quantitative Easing 2. Il nuovo debito pubblico è pari al deficit. Prima delle elezioni di mid-term il deficit stimato ammontava a 1.000 miliardi di dollari, mentre adesso è stimato intorno ai 1.500. In altre parole, l’intervento della banca centrale compra e comprerà una parte considerevole del nuovo debito pubblico. In questo modo, il costo dell’«indecisionismo» statunitense sulla politica fiscale (tagli alle spese – ma quali?, rialzo alle imposte – no, grazie) non emerge. Si compra tempo, sperando che la ripresa economica riporti tutto sotto controllo.
A proposito degli effetti del minor costo del debito pubblico (7). Gli interessi sul debito pubblico sono pari al 15% delle entrate fiscali del governo federale degli Stati Uniti. Questo numero è influenzato da quanto i rendimenti sono bassi. Il debito è rinnovato emettendo molte obbligazioni a breve scadenza, che sono acquistate in misura cospicua dalla banca centrale. Se il debito costasse come nella media degli ultimi duecento anni (il 5,8%), allora gli interessi sul debito sarebbero pari al 30% delle entrate. Se il debito costasse come nella media del secondo dopoguerra (il 6,9%), allora gli interessi sul debito sarebbero pari al 37% delle entrate (8). Che cosa accadrà quando il Quantitative Easing sarà terminato? (9).
Terza conclusione: i mercati azionari – se osservati nella loro componente più sofisticata, i futures e le opzioni – erano scettici da prima della crisi araba e giapponese. La crisi araba per ora non ha prodotto un prezzo del petrolio foriero di crisi, e la crisi giapponese, se privata del risvolto della contaminazione nucleare, non ha avuto un impatto degno di nota. Lo scetticismo degli operatori potrebbe essere legato al controllo del debito pubblico, che, come abbiamo visto, è labile, e ha pure una scadenza temporale: in giugno termina, infatti, il Quantitative Easing 2.
Tirando le somme
I mercati azionari potrebbero salire ancora un po’, ma anche flettere molto all’improvviso. Il debito pubblico statunitense va evitato.
(1) Appunti per l'Asset allocation / IV
(2) Appunti per l'Asset allocation / III
(4) Il terremoto giapponese / II
(5) http://www.ft.com/cms/s/0/4365acbc-50e3-11e0-8931-00144feab49a.html#axzz1GX8MUuIi
(6) L'indecisionismo statunitense
(7) Avviso ai naviganti / XXXII
(8) http://ftalphaville.ft.com/blog/2011/03/04/504871/mean-reverting-us-government-bonds/
(9) http://www.pimco.com/Pages/Two-Bits-Four-Bits-Six-Bits-a-Dollar.aspx
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