Gli spagnoli di Telefonica prenderanno il controllo della finanziaria che è l'azionista di maggioranza di Telecom Italia. I francesi di Air France prenderanno il controllo di Alitalia. Insomma, delle aziende importanti, che hanno pure nel nome il richiamo all'Italia, finiscono nelle mani di “non italiani”, o, come dicono alcuni, di “stranieri”. Molti si stracciano le vesti per la perdita di “Sovranità”. Una volta eravamo sovrani, ora non più. Ma come stavano le cose ai tempi della sovranità perduta?

Una volta le infrastrutture - telefonia, acciaio, autostrade, voli arei, finanziamenti a lungo termine, ecc – erano offerte dallo stato attraverso l'IRI. Era il lascito “dirigista” del Ventennio, o, se si preferisce, della svolta statalista ai tempi della grande crisi degli anni Trenta. In breve, lo stato offriva i “beni base”, quelli che servano a produrre i beni finali. Un modo di vedere le cose è questo. I pisani aprivano gli alberghi e le pizzerie per i turisti, che arrivavano con Alitalia o con Autostrade. Altri dirigevano le proprie imprese che ricevevano l'acciaio dall'Italsider e si finanziavano presso l'IMI. Infine, tutti potevano telefonare grazie alla SIP (in origine Società Idroelettrica Piemontese). Fuori dal campo delle infrastrutture, perché l'IRI si era allargata, ecco che i ristoratori potevano comprare i pomodori dalla SME ed offrire i cioccolatini sempre della SME (in origine Società Meridionale Elettrica). Per non dire di Mediobanca, impresa controllata dalle Banche di Interesse Nazionale (BIN), controllate dall'IRI, ma di fatto autonoma. Il mercato primario – quello dove le imprese si approvvigionano di obbligazioni ed azioni – passava quasi tutto attraverso Mediobanca, che, in questo modo, governava il sistema privato. Mediobanca collocava i titoli presso il pubblico attraverso gli sportelli delle BIN. Nel sistema le Assicurazioni Generali dovevano essere “tenute fuori”. La potenza di fuoco di Generali era, infatti, tale che avrebbe potuto alterarne gli equilibri comprando partecipazioni. Le Generali erano una specie di “grande Berta” che non doveva mai sparare.

Questo era il mondo della “Sovranità”. Un mondo molto statalizzato. In questo mondo già molto statalizzato fu costruito negli anni Sessanta e Settanta lo “stato sociale” - ossia la sanità, la scuola e le pensioni – con le entrate che erano inferiori alle uscite. Da qui il gran debito pubblico. Agli inizi degli anni Novanta si aveva un'economia statalizzata con un gran debito pubblico. Da allora fino ad oggi abbiamo assistito ai sussulti di questo mondo. Nel caso specifico di Telecom, abbiamo avuto un'impresa con dei flussi di cassa enormi, che erano in grado, riducendo gli investimenti, di reggere una mole enorme di debito. Telecom è stata così scalata due volte accendendo del debito “a monte”, che veniva poi scaricato “a valle”. La sua deriva non è perciò figlia del destino “cinico e baro”.

La Sovranità di cui si ha oggi tanta nostalgia era – largo circa – quanto appena raccontato. Un intreccio statalista in un mondo che è cresciuto molto fino agli anni Ottanta. Poi, ecco il grande mutamento, di cui non sono ancora chiare le dinamiche. Questo mondo è venuto giù, intanto che i suo protagonisti, a causa dell'età, sono passati a “miglior vita”. Attenzione, però. Anche la Gran Bretagna ha perso sovranità, gli “stranieri” hanno comprato quasi tutti i suoi grandi marchi. La nostalgia per il mondo degli “stati sovrani” del Dopoguerra va contro la “dinamica storica”. Quel che serve oggi da noi è lo snellimento della pubblica amministrazione e la riduzione del cuneo fiscale, non il tenersi l'Alitalia. Da quando in Italia il cosiddetto “salotto buono” - ossia l'intreccio dei succitati “poteri forti” - è venuto velocemente meno, si è accesa una discussione sul controllo delle imprese. C'è chi vede nella fine del sistema del “salotto buono”, la liberazione delle energie imprenditoriali – chiamiamoli i “mercatisti” -, e c'è chi vede nella dispersione delle forze un pericolo, e dunque cerca nella Cassa Depositi e Prestiti (addirittura insieme alle Fondazioni) una nuova Mediobanca, o, forse, addirittura una nuova IRI – chiamiamoli i “dirigisti”.

La discussione non è astratta. In Italia avevamo un sistema che premiava nelle grandi imprese gli azionisti di riferimento e i sindacati, con gli azionisti di minoranza che venivano chiamati – con espressione crudele, ma realistica – il “parco buoi”. E' giunto il momento di premiare anche in Italia tutti gli azionisti – grandi e piccoli - come si pensa si faccia nei Paesi anglosassoni, ossia è arrivato il momento dello “share holder value”? L'espressione indica che gli interessi degli azionisti sono quelli che vanno perseguiti, perché sono gli unici di natura “generale”. Ossia, facendo gli interessi degli azionisti si fanno gli interessi di tutti – dipendenti, clienti, eccetera. Essa si contrappone al modello dello “stake holder value”, che sostiene, al contrario, che le imprese devono tenere conto di tutti gli interessi, perché questi non sono facilmente allineabili dietro a uno solo, quello degli azionisti.

Insomma, si sta chiarendo il bivio. L'Italia crescerà meglio se più “mercatista”, oppure – per crescere – avrà ancora bisogno di una qualche “dirigismo”? Vale la pena ricordare che, se si somma la capitalizzazione delle imprese pubbliche - come l'ENI, a quella delle imprese ex pubbliche - come la gran parte delle banche, si arriva a circa la metà della capitalizzazione della borsa italiana. Ossia essa è (almeno per metà) figlia di quanto accaduto nel lontano passato “dirigista”.

 

Il Commento è l'elaborazione di due articoli:

http://temi.repubblica.it/limes/telecom-ossia-dellitalianita-perduta/52164

http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/commenti/3537-mercatisti-versus-dirigisti.html