Dallo stallo del conflitto e dal limbo istituzionale in cui continuano a trovarsi le Repubbliche Popolari di Lugansk e Donetsk hanno certamente tratto beneficio le oligarchie locali

L’Ucraina continua a dimenarsi in un pantano. Il 3 marzo prossimo si terranno le elezioni presidenziali, di cui parleremo in futuro, che vedono il presidente in carica Poroshenko arrivare a fine mandato in difficoltà. Come evidenziato nella scheda precedente, la decadenza economica e istituzionale del Paese prosegue infatti parallela allo stallo della guerra civile, che nella regione orientale del Donbass si combatte dal 2014 (Figura 1).
Le elezioni tenutesi nelle autoproclamate Repubbliche Popolari di Lugansk e di Donetsk lo scorso 11 novembre 2018, dopo mesi, se non anni, di ritardi, sono state bollate come una violazione degli accordi di Minsk sia da parte di Kiev che dell’Unione Europea ancor prima del loro svolgimento. Washington, tramite il Dipartimento di Stato, ne ha invece liquidato ogni legittimità appena qualche ora dopo la loro conclusione.

Il prevedibile risultato delle elezioni di Lugansk e Donetsk, dove dai primi mesi del 2015 a oggi il Cremlino ha imposto agli insorti di rinunciare ad ogni progetto offensivo, relegando la loro attività militare alla difesa dei territori sotto il loro controllo, ha confermato i due presidenti ad interim Leonid Pasecnik e Denis Pushilin e non sembra aver prodotto una differenza sostanziale né in relazione alla guerra che Kiev intende proseguire, né in relazione agli equilibri tra forze in campo. Dal canto suo il presidente della Repubblica Popolare di Donetsk Denis Pushilin ha sintetizzato le priorità degli insorti del Donbass - e quelle di Mosca – in tre punti fondamentali: lotta alla corruzione, integrazione con la Russia, sviluppo dell’economia.
Nonostante il riconoscimento dei documenti emessi dai governi di Lugansk e Donetsk firmato da Vladimir Putin e l’integrazione nell’economia del Cremlino, la prospettiva di un'ipotetica annessione alla Federazione Russa delle due repubbliche popolari appare poco probabile: un’ipotesi del genere avrebbe, infatti, un impatto assai rilevante sui bilanci di Mosca (Figura 2) e certamente porterebbe con sé l'acuirsi dei contrasti con l'Occidente ed un inasprimento delle sanzioni economiche dirette verso il Cremlino. Un rischio – e un prezzo – a cui Mosca non sembra almeno per il momento essere disposta a esporsi. L'influenza più o meno diretta almeno su porzioni di territorio ucraino rimane comunque per Mosca assai importante.

Nonostante la nuova cornice della Joint Venture Operation in cui sono state inserite le operazioni militari ucraine sul fronte del Donbass, né il 2017 né il 2018 hanno segnato “la riscossa ucraina” promessa dai senatori statunitensi Lindsey Graham e da John McCain alcuni mesi prima della morte di quest'ultimo. McCain incarnava nelle sue posizioni la più feroce politica antirussa del Congresso statunitense, attribuendo grande valore alla questione ucraina. Se è certamente possibile che la morte di McCain possa aver circoscritto la presa di certe posizioni, , l'apparato di Washington ha dimostrato in più di un'occasione di essere decisamente poco incline al dialogo con Mosca. Nonostante la complessità della situazione, l'iniziativa strategica del conflitto ucraino sembra solitamente nelle mani del Cremlino. Il ruolo di Kiev, malgrado il rinnovato (se pur scettico) sostegno dell'Occidente, sembra relegato alle provocazioni, lasciando immutato il quadro complessivo del conflitto.


Il riposizionamento strategico degli Stati Uniti – che si rintraccia nel ridimensionamento dell’impegno militare in Siria e in Afghanistan, in contemporanea all’aumento della pressione sull’America Latina - non mancherà di avere delle conseguenze di qualche genere sulla questione ucraina, che gli Stati Uniti potrebbero certamente utilizzare in chiave antitedesca favorendo un’ulteriore destabilizzazione del paese.
Sin dai primi mesi del 2015 la mancanza di manovre militari su larga scala ha avuto l'effetto di acuire le tensioni interne tra gli insorti del Donbass e, sul fronte opposto, di dare la possibilità a Kiev di riorganizzare il proprio esercito, migliorandone addestramento ed efficienza anche grazie al sistematico sostegno dell'Alleanza Atlantica.
Tra le fila degli insorti della regione, così come tra i numerosi volontari arrivati dalla Federazione Russa e dal resto del mondo ex-sovietico, la snervante strategia del Cremlino non ha mancato di creare disappunto, frustrazione, disillusione e incertezza, dopo lunghi anni di guerra a bassa intensità.. La compagine degli insorti ha subito l'eliminazione della maggior parte dei comandanti militari che godevano di prestigio ed autorevolezza tra la popolazione civile e tra le fila dei combattenti. Per ultimo, nella lunga lista, si è registrato l'omicidio del presidente dell'autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk Alexander Zakharcenko, ucciso in un attentato il 31 agosto 2018. L'omicidio è stato seguito a pochi giorni di distanza - già in clima elettorale - da un attentato consumatosi nel luogo dove si stava svolgendo il Congresso del partito comunista locale, presieduto dall'ex presidente del parlamento di Donetsk Boris Litvinov. L'indiscussa popolarità di Zakharcenko – resa evidente dalle duecentomila persone che gli hanno reso omaggio nel corso dei funerali – faceva apparire la sua conferma elettorale quasi scontata. Ben noti erano gli attriti, emersi anche pubblicamente in varie occasioni e non certo circoscrivibili all'ambito elettorale. che lo contrapponevano al principale rivale Alexander Khodakovskij, comandante della celebre Brigata Vostok ed ex capo dei servizi segreti ucraini di Donetsk. Su Khodakovskij, ritenuto vicino all'oligarca Rinat Akhmetov , il Cremlino sembra non aver sciolto le proprie riserve: secondo alcune indiscrezioni gli sarebbe addirittura negato l'accesso al territorio della Federazione Russa. Kiev dal canto suo ha respinto ogni accusa di coinvolgimento nell'omicidio di Zakharcenko, come già avvenuto in passato per l'omicidio dei comandanti Bednov, Mozgovoi. Dremov, Givi e Motorola.

Certamente alcuni poteri legati alla Federazione Russa potrebbero non aver visto con particolare favore le simpatie socialiste di Alexey Mozgovoi o dello stesso Alexander Zakharcenko. Tuttavia sono ben pochi gli elementi concreti che possono dar credito ad una responsabilità diretta nel Cremlino nei numerosi omicidi politici in Donbass. A livello generale, l'ipotesi più verosimile che possa spiegarli resta uno schema in cui si sovrappongono interessi distinti: di Kiev e della sua quinta colonna, degli Stati Uniti, della criminalità organizzata e degli oligarchi locali e infine quelli di alcuni settori dell'apparato russo, su cui il Cremlino potrebbe non aver il pieno controllo. L'aver dovuto “riciclare” componenti del vecchio apparato politico e militare ucraino ha imposto al Cremlino la necessità di risanare continuamente la vulnerabile compagine dei propri affiliati. Nel corso degli anni l'uscita di scena dell'ex presidente di Lugansk Igor Plotinskij e l'arresto del Ministro del Tesoro di Donetsk e dell'ex Ministro dell'Energia di Lugansk non hanno mancato di confermare la consistenza del problema.

Dallo stallo del conflitto e dal limbo istituzionale in cui continuano a trovarsi le Repubbliche Popolari di Lugansk e Donetsk hanno certamente tratto beneficio le oligarchie locali. Gli oligarchi radicati nella regione del Donbass continuano infatti a condizionare in modo determinante l’assetto economico del territorio sotto controllo degli insorti. A marzo 2017 molte delle proprietà dell’oligarca Akhmetov, vecchio “padrone” del Donbass, sono state formalmente nazionalizzate passando sotto il controllo di “Vneshtoergservis”, società registrata in Ossezia del Sud, repubblica riconosciuta ufficialmente da Mosca - a differenza di Lugansk e Donetsk – che a sua volta riconosce giuridicamente la sovranità delle due repubbliche del Donbass nate dalla rivolta del 2014. La società è controllata dal giovane Sergej Kurcenko, oligarca ucraino rifugiatosi nella Federazione Russa dopo la destituzione dell’ex presidente ucraino Viktor Yanukovich, a cui sembra essere molto vicino.
Contro l’oligarca Kurcenko già nel 2015 si erano svolte a Donetsk vigorose proteste a cui avevano partecipato migliaia di persone: lo stesso Zakharcenko prima di venire ucciso stigmatizzava Kurcenko come “amministratore temporaneo” dell’economia della regione, evidenziando la scarsa simpatia che nutriva nei confronti dell’oligarca. Oltre ad avere nelle proprie mani il controllo di buona parte dell’industria pesante ed estrattiva nei territori del Donbass, attraverso la società “Gas-Alians” l’oligarca Kurcenko controlla anche il transito del gas russo (Figura 3) diretto in Ucraina attraverso i territori di Lugansk e Donetsk e la distribuzione di questo. La scelta di Mosca di lasciare – almeno pro tempore - nelle mani dell’oligarca Kurcenko gran parte dell’economia del Donbass sembra avere l’obiettivo fondamentale di indebolire il ruolo di Rinat Akhmetov, il cui potere si estendeva in ogni settore dell’economia ucraina (Figura 4 e Figura 5): industria pesante, energia, telecomunicazioni, banche, assicurazioni, media, commercio, immobili.
Rinat Akhmetov pretende da Mosca ben 500 milioni di dollari come indennizzo per la nazionalizzazione di una società del gruppo DTEK-Metinvest avvenuta dopo l’annessione della Crimea. Il controllo de facto russo sul Mare d’Azov e sulle rotte da e per Mariupol, l’unico porto sul Mare d’Azov ancora virtualmente sotto il controllo di Kiev, costringe Akhmetov a negoziare con il Cremlino la percorribilità delle rotte da e per Mariupol: l’economia di questa città portuale ruota infatti intorno alle industrie metallurgiche (Figura 6) controllate dal gruppo DTEK-Metinvest.

Se le elezioni tenutesi a Lugansk e Donetsk non hanno prodotto per il momento una differenza sul piano sostanziale, la probabile sconfitta di Poroshenko nelle presidenziali del prossimo marzo sembra destinata a segnare un punto di svolta, almeno negli equilibri della rappresentanza politica del paese: un fatto che i vecchi oligarchi non mancheranno di tenere a mente.