«Dollarizzare l’economia? Impossibile, a meno che Biden non deleghi l’Argentina a stampare dollari, cosa che vedo un po’ improbabile. E, comunque, se realizza anche solo il 20% di quel che predica, Milei spacca il Paese. No, troppa incertezza; non investirei un dollaro in Argentina, in questo momento». Non è tenero il giudizio di Alberto Forchielli - imprenditore e opinionista esperto di affari internazionali, consulente di multinazionali, imprese statali e della Banca Mondiale, nonché fondatore di Mindful Capital partners, una società di private equity con cui investe in imprese per la gran parte italiane – sull’elezione a presidente dell’Argentina di Javier Milei, l’anarco-populista che promette di far tornare l’Argentina «il primo Paese del mondo», lasciandosi definitivamente alle spalle il peronismo di Sergio Massa, l’avversario sconfitto con il 56% dei voti. Il tutto brandendo una motosega, a simboleggiare la volontà di lotta contro la corruzione dei partiti e i loro supporter sociali e imprenditoriali. Un contesto in cui la povertà ha superato la soglia del 40% (18 milioni di persone) e, di questi, 5 milioni si trovano nella condizione di indigenza e non possono accedere neanche ai beni di prima necessità.
Il peronismo è stato il vero guaio dell’Argentina?
«Si, una disgrazia tremenda. Nel primo dopoguerra l’Argentina era ai vertici dell’economia mondiale ma mezzo secolo di ‘cura’ peronista, cioè di spesa pubblica senza freni, l’hanno messa alle corde. Ora uscirne non sarà facile. Il Cile ce l’ha fatta, ma è dovuto passare da Pinochet».
In questo senso la deposizione di Allende è stata un vantaggio per il Paese?
«Per l’economia cilena, si, senza alcuna ombra di dubbio; sotto questo profilo il golpe è stato provvidenziale. Il problema è che si è dovuto passare da una dittatura, con tutto quel che ne è conseguito, a cominciare dall'inaccettabile numero di vittime. Ma, dal punto di vista economico, l’uscita del Cile dal peronismo di Allende è stata una manna. Adesso, nel medio termine, il Cile è diventato il miglior Paese dell’America Latina grazie a riduzione della spesa pubblica e privatizzazioni. La politica monetaria di Milton Friedman è stata la carta vincente».
Lo slogan principe di Milei è stato quello di “dollarizzare” l’economia e di abolire la Banca centrale. Si può fare?
«In teoria sì, in pratica no. Oppure sì, ma a costi sociali ed economici pazzeschi. “Dollarizzare” vuol dire cancellare il Peso e, in questo senso, eliminare il ruolo della Banca centrale come creatore di base monetaria. Di fatto si abdica alla possibilità di fare politica monetaria nazionale e ci si affida al dollaro, con i tassi americani e, nel tempo, l’inflazione americana».
E in pratica?
«In pratica succede che lo Stato non avrà più i denari per pagare le sue spese visto che non stampa moneta e non fa debito per pagare la spesa pubblica. Significa lasciare senza stipendio la gran parte dell’apparato pubblico e fare i conti solo con i dollari che entrano grazie all’interscambio commerciale».
Ma senza fare debito si distrugge lo Stato sociale. In Argentina oggi la metà della popolazione, 23 milioni di persone, dipende dallo Stato; impiegati pubblici, pensionati, beneficiari di redditi di cittadinanza, di borse di studio o di assegni di ricerca. Tutto a rischio?
«Certamente, sarebbe una delle conseguenze. Ma Milei non riuscirà mai a chiudere 10 ministeri perché, tra l’altro, gli manca la forza parlamentare per farlo, e poi dopo vedremmo le piazze piene e ci sarebbero tumulti sociali. Ci vorrebbe un golpe per fare quello che promette, ma non credo che ci sarà un golpe in Argentina. Servirebbe l’appoggio dell’esercito».
Però la gente ha voltato le spalle al peronismo. Stupito?
«MiIioni di stipendi nel pubblico impiego, tantissima gente pagata per fare nulla. È questa una delle eredità del peronismo, che un po’ abbiamo ereditato anche in Italia. Proprio la gente non ne poteva più di vedere impiegati pubblici pagati per fare nulla. Questo in parte spiega un voto popolare che apparentemente va contro lo Stato sociale. Ma non è che la gente comune, e il ceto medio, vivano bene con una inflazione al 140% e stipendi non indicizzati all’aumento del costo della vita. In Cile è servito un colpo di Stato, qui la gente ha votato. E in Argentina servirà un processo di lungo periodo per rimettere le cose a posto».
Nel frattempo lei investirebbe i denari del suo fondo in Argentina?
«No, assolutamente. Troppa incertezza. Oggi non avrebbe senso puntare su un Paese che è in quello stato. Ora vediamo cosa concretamente farà Milei, ma credo che il suo progetto si concretizzerà in qualcosa di molto più moderato di quel che ha detto. Ridurre l’inflazione è la questione cruciale, ma per ridurla si dovrebbero portare i tassi al 100% raffreddando i prezzi. Con il rischio però di affamare metà del Paese che a quel punto scenderebbe in piazza. Come vede non ci sono le condizioni per investire in Argentina, oggi».
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