L’idea di un ritorno alla “normalità” dopo la crisi del Covid-19 nelle relazioni fra Unione Europea e Africa, come ha osservato Carlos Lopes, Alto rappresentante dell’Unione Africana per la partnership con l’Europa, è semplicemente una non-opzione.  I rapporti UE-Africa richiedono un profondo ripensamento e rimodellamento dei meccanismi del passato, per lo più basati su interventi disorganici e frammentari, a vantaggio di una governance congiunta.

Altrettanto l’impegno di Washington in Africa deve tenere conto che, nell’attuale riedizione della competizione fra grandi potenze, gli Usa possono orientare i governi africani alle prese con crisi sociali e ribellioni soltanto se mostrano di essere grado di estirpare le radici del terrorismo e di gettare le basi per lo sviluppo di una stabilità e una prosperità politica ed economica nel futuro.

Un cambio di paradigma

Ciò implica, innanzitutto, un mutamento nella logica e nei meccanismi di aiuto e di intervento occidentali a livello economico, sociale e militare.  La diplomazia americana per molti anni ha agito in base all’assunto che gli Stati post-coloniali fossero Stati-nazione in senso convenzionale ossia con confini definiti, governi unitari e popolazione che condivideva una identità comune. In pratica, vi è stata scarsa consapevolezza del fatto che molti di questi Paesi mancano di un’identità nazionale intesa secondo canoni e valori culturali dell’Occidente, e che sovente sono dominati da élites ristrette e autoreferenziali.

In grandi Stati come Nigeria (dove ci sono più di 250 gruppi etnici e tre distinte affiliazioni religiose), Repubblica Democratica del Congo ed Etiopia il potere è scivolato via dalle capitali verso centri di potere regionali dove l’influenza è esercitata da politici locali, leader religiosi e capi tradizionali.

Il caso Etiopia

Si veda il caso esemplare dell’Etiopia. Nel 2019 il primo ministro Abiy Ahmed fu insignito del Premio Nobel per la Pace. Malgrado l’immagine di leader riformista abilmente coltivata, Abiy Ahmed è un leader militare  che prima di divenire premier è stato a capo dell’Intelligence etiope. Adesso il suo Paese è sull’orlo della guerra civile. Le tensioni fra il suo governo e il Tigrayan People’s Liberation Front, una volta forza dominante all’interno del governo, ha riacceso l’incubo della sanguinosa guerra civile che devastò il Paese dal 1974 al 1991.

Gli Stati Uniti hanno varato severe misure contro l’Etiopia sospendendo 23 milioni di dollari in aiuti per la sicurezza con l’obiettivo di accrescere la pressione internazionale perché si ponga fine a combattimenti e atrocità contro i civili nel Tigray. Altre misure prevedono il blocco della vendita di armamenti americani al Paese, sebbene la maggior parte delle armi provenga dalla Russia. Pertanto, è difficile prevedere se queste e altre misure avranno effetto. Washington teme che il caos nel Tigray possa destabilizzare l’intera regione e complicare la disputa fra Addis Abeba e l’Egitto per la costruzione di un’enorme diga sul Nilo da parte dell’Etiopia.

La piramide dell’Egitto

A sua volta, Il Cairo è un importante partner per l’amministrazione Biden. Ha un ruolo chiave fra mondo arabo e Israele, essendo stato il primo Paese a siglare la pace con Tel Aviv nel 1979. L’Egitto è il principale destinatario degli aiuti militari statunitensi, 1,3 miliardi di dollari all’anno. Tuttavia, ha anche condotto una dura repressione sia contro gli islamisti sia contro gli oppositori secolari. I rapporti fra Washington e Il Cairo mettono così in chiara luce le contraddizioni di un’amministrazione che ha promesso solennemente di porre i diritti umani al centro della sua politica estera e la questione di come bilanciare gli interessi con la tutela dei diritti umani e la democrazia.

Il commercio delle armi

Anche l’impegno della UE, principale partner commerciale e d’investimenti dell’Africa, ad armare i governi africani alleati nel Continente è una spada a doppio taglio. Bruxelles, nella prospettiva di accrescere il suo hard power, ha recentemente varato un piano settennale di 5 miliardi di euro, l’European Peace Facility (EPF), per coprire «le sue azioni esterne con implicazioni nel settore militare o della difesa nell'ambito della politica estera e di sicurezza comune».

Obiettivo dell’EPF è di rafforzare la capacità dell'UE di «prevenire i conflittipreservare la pace e rafforzare la stabilità e la sicurezza internazionali». In pratica, per combattere il terrorismo, il piano finanzia e rafforza le abilità al combattimento anche di partner autoritari come Déby in Ciad che ha appena compiuto un colpo di Stato.  In questo scenario il training da parte europea di truppe e guardie (in Mali come in Libia) può rivelarsi controproducente. Tanto che Parigi ha dovuto annunciare la cessazione delle esercitazioni congiunte con l’esercito del Mali dopo il colpo di Stato militare in quel Paese.

Il terreno di caccia per Russia, Cina e Turchia 

Il punto è che la nuova assertività militare della Russia in Africa, i cui contractor aiutano i governi a combattere i movimenti ribelli, come per esempio nella Repubblica Centrale Africana, nonché l’espansionismo cinese e turco, mostrano che dove l’Europa o gli USA non intervengono, le potenze rivali sono pronte a farlo. D’altra parte, la diffusione dell’ingovernabilità in vaste regioni dell’Africa  dalla Mauritania al Sudan, mette a rischio la sicurezza della stessa Europa.

Sinora la Francia è stata ufficialmente e militarmente presente nelle regioni di maggior preoccupazione per l’Europa: Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger. Ma come dimostra il caso del Mali, la linea su cui si muove la UE  in cerca di ampliare la sua influenza è assai sottile, e la mera stabilizzazione dello status quo non può essere la soluzione.

Anche Washington, per troppo tempo, ha seguito la più agevole politica dello status quo anzichè usare il suo enorme peso diplomatico, economico, politico per spingere i partner africani a compiere profondi cambiamenti e riformare i loro Paesi.

Il new deal

Il Summit europeo, recentemente convocato a Parigi, ha lanciato un nuovo piano di investimenti multimiliardario subito definito un “New Deal” per l’Africa di fronte ai presidenti di Repubblica sudafricana, Nigeria, Kenya, Etiopia, Angola, Mozambico, Costa d’Avorio e Repubblica Democratica del Congo. Si prevede un importante intervento a favore del settore privato, che è stato il principale motore di crescita in Africa negli ultimi 20 anni e che più ha sofferto per la pandemia e per le difficoltà di accesso al credito.

In particolare, la Ue intende investire sui giovani imprenditori, ma un ostacolo allo sviluppo dell’agricoltura dei piccoli farmer in Africa ha origine nella stessa Pac che avvantaggia i coltivatori europei. Due i pilastri del piano: affrontare le necessità finanziarie dell’Africa e puntare a una ripresa verde; sostenere una crescita a lungo termine trainata dall’imprenditoria giovane e dal finanziamento di infrastrutture di qualità.

In questo scenario si aprono importanti opportunità anche per l’Italia con la sua rete di eccellenti PMI internazionalizzate.

Perchè i Paesi occidentali, più che affidarsi a mere operazioni militari di controterrorismo che possono rivelarsi controproducenti, devono incentrare i propri interventi al sostegno e al rafforzamento degli sforzi della popolazione locale nella lotta contro la corruzione e la percezione di abbandono da parte di governi autoritari ed élite autoreferenziali.