Il dibattito sul salario minimo ha riportato alla luce il tema del lavoro povero in Italia. I dati mostrano come il fenomeno sia in costante crescita negli ultimi venti anni, e come questo riguardi oggi in maniera prevalente alcune specifiche categorie di lavoratori.

Come si misura

Con povertà lavorativa si intende, in generale, quella condizione per cui un lavoratore pur essendo occupato – o parzialmente occupato durante un certo periodo di tempo – guadagna un salario complessivamente basso. Uno dei modi più comunemente utilizzato per misurare la povertà lavorativa consiste nel considerare come poveri i lavoratori che durante l’anno hanno accumulato un reddito complessivo inferiore al 60% del reddito mediano. Questo tipo di approccio identifica quindi la povertà lavorativa in termini relativi – non guardando semplicemente al reddito ma alla posizione reddituale del singolo occupato rispetto agli altri lavoratori – e in termini individuali – facendo quindi riferimento al reddito da lavoro individuale e non al reddito disponibile a livello familiare. Nel seguito identifichiamo un lavoratore come occupato durante un certo anno se durante quei dodici mesi è risultato occupato per almeno tredici settimane, indipendentemente dal tipo di contratto. Altri tipi di approcci che escludano dal calcolo i lavoratori con carriere discontinue –  considerando per esempio solo coloro occupati per tutti i mesi dell’anno – e i lavoratori con contratti part-time – considerando quindi solo gli occupati a tempo pieno – risulterebbe fuorviante, in quanto una delle determinanti più rilevanti della povertà lavorativa risulta essere proprio il tempo lavorato durante l’anno, e non il salario orario – si veda un approfondimento su questo aspetto pubblicato su Lavoce.info.

L’aumento della povertà

Dai dati Inps sulle carriere dei lavoratori dipendenti Italiani occupati nel settore privato emerge come la povertà lavorativa sia in costante aumento sin dagli anni ’80. In particolare, la percentuale di lavoratori poveri (figura 1) è passata da circa il 18% nel 1985 a circa il 26% nel 2019 (corrispondente a circa 4 milioni). La soglia per identificare la povertà lavorativa è stata calcolata di anno in anno, aggiustando i salari lordi per l’indice dei prezzi. Questa dinamica crescente della povertà lavorativa si spiega con un numero sempre più alto di lavoratori a medio-basso reddito che si sta spostando verso la parte bassa della distribuzione. Al contrario, la distribuzione dei redditi è rimasta pressoché invariata per i lavoratori con redditi medio-alti. In altre parole e volendo semplificare, l’aumento della povertà lavorativa relativa può essere attribuita ad un impoverimento generalizzato della classe media.

Chi sono i lavoratori poveri?

Dopo aver inquadrato il fenomeno, possiamo ora meglio indagare chi siano i lavoratori che abbiamo identificato come relativamente poveri. Prendendo a riferimento, per ciascun lavoratore, il contratto prevalente durante l’anno, possiamo in particolare misurare tra quali tipologie di lavoratori la percentuale di coloro in condizione di povertà lavorativa sia più alta. Per farlo, ci focalizziamo sull’ultimo anno disponibile, il 2019. Tra coloro impiegati con un contratto full-time e a tempo indeterminato, solo il 6% circa dei lavoratori Italiani è risultato povero durante il 2019 – contro una media del 29%. Tra i lavoratori full-time ma impiegati con un contratto a termine, la percentuale dei lavoratori poveri sale invece a circa il 37%, a dimostrazione di come il lavoro a termine si associ in molti casi ad un più alto rischio di lavoro intermittente e di disoccupazione – e quindi di rimanere senza uno stipendio per alcuni mesi dell’anno. Considerando l’ammontare di ore lavorate, tra i dipendenti part-time e impiegati con un contratto a tempo indeterminato, nel 2019 il 50% circa di essi è risultato in una condizione di povertà lavorativa. La stessa percentuale sale infine a circa l’80% per coloro impiegati con un contratto part-time e a tempo determinato. Un lavoratore su cinque tra quelli in questa condizione occupazionale è quindi in una situazione di povertà lavorativa (Figura 2)

Bene il salario minimo, ma non basta

I dati sin qui presentati mostrano come la povertà lavorativa sia in aumento nel nostro Paese, e come  la condizione contrattuale – in particolar modo la tipologia di orario e la stabilità contrattuale – sembra imporsi come una delle principali cause dietro il fenomeno. In questo contesto, l’introduzione del salario minimo – spesso promosso proprio come strumento per ridurre la povertà lavorativa – non può da solo risolvere il problema, pur rimanendo una misura potenzialmente utile e opportuna. Occorre infatti intervenire anche sulla quantità di tempo lavorato, favorendo occupazioni stabili e una più ampia partecipazione al mercato del lavoro.