Fino a qualche tempo fa si poteva pensare che la rielezione sarebbe stata una passeggiata per Barack Obama. Oggi, però, è lecito nutrire qualche dubbio. A pesare come un macigno sulla sua rielezione sono un’economia che non pare volersi riprendere; una guerra, quella in Afghanistan, che non pare volersi chiudere; la sua stessa riluttanza a fare “racconto,” ossia a rendere “narrativo” il suo discorso politico. Quest’ultima ragione parrebbe paradossale se non fosse la più insidiosa. Obama deve sì la sua fortuna personale alle buone vendite dei suoi libri autobiografici, ma quando si tratta di spiegare in poche parole la sua visione politica pare trovarsi in forte difficoltà. In un’epoca in cui la promozione di un messaggio politico è simile alla promozione di una merce qualsiasi, un buon politico deve saper condensare il proprio pensiero politico in una “narrative” chiara e fruibile.
Facciamo un esempio concreto e ben conosciuto. Uno dei motivi del successo di Ronald Reagan fu quello di portare alle estreme conseguenze il racconto, la “narrative”, della Guerra Fredda. “Comunismo” era la parola chiave di Reagan e dinanzi all’elettore americano si apriva un intero universo narrativo.
Lo capiamo bene anche noi in Italia, perché ad un certo punto qualcuno pensò bene di suggerire a Silvio Berlusconi di usare lo stesso termine per conseguire lo stesso risultato. Come è noto, la cosa ebbe successo.
L’esempio italiano ci porta a formulare una prima ipotesi sul perché Obama abbia potuto decidere di non usare questa tecnica. Dopo un po’ stanca e si trasforma in boomerang. Chi usa oggi la parola chiave “comunista”, in Italia come in America, non ottiene nulla e appare ridicolo (tanto che negli Stati Uniti la parola chiave “communist” è stata sostituita con “socialist”).
Uno dei motivi della vittoria di Obama fu la decisione di usare un discorso non-narrativo: invece di evocare racconti attraverso l’uso di “parole chiave”, Obama preferì puntare sull’esemplarità della sua persona, che era in sé così evocativa – un nero alla Casa Bianca – da poter essere veicolata con la sola presenza fisica sul proscenio.
La tecnica si dimostrò vincente, tanto che ognuno vide in Obama quello che voleva vedere: un liberal, un radical, un nero, un americano post-etcnico, un accademico, un uomo che si è fatto da solo, un attivista, un avvocato, un amico della Scuola di Chicago, un socialista, ecc.
Il problema venne dopo. Una volta eletto, un elettorato abituato a essere intrattenuto da racconti attraverso l’uso strategico di parole chiave si ritrovò con un Presidente che non rispondeva alle aspettative. Tecnicamente non era neppure il primo afro-americano alla Casa Bianca perché figlio di un africano e di una donna bianca, non di un discendente degli schiavi neri d’America. Quindi il problema: una volta eletto Obama ha cessato di essere l’incarnazione di un racconto ed è divenuto un enigma. Ha smesso di narrare.
2. È difficile, e sarebbe comunque sbagliato, dare dello sprovveduto ad Obama per non aver saputo trovare sin dall’inizio una “narrative” in cui riassumere la sua visione politica.
C’è chi ha sostenuto che era forse dai tempi di Lincoln che non si udivano comizi come quelli fatti da Obama nel 2008. Ma forse il problema è proprio quello. Non viviamo più nell’epoca del discorso orale ben fatto, tanto che sono in pochi oggi ad apprezzare il genere. Viviamo piuttosto nell’epoca del “sound bite”, del microfono acceso per pochi secondi alla volta.
La tecnica del racconto narrativo fu sviluppata proprio per ovviare a questo problema. Spesso in televisione (ma anche alla radio e, perché no, su internet) c’è solo il tempo di dire due parole. Tanto vale dire una frase semplice che in pochi tratti possa esprimere una visione politica generale. Le “narratives” servono a far questo, proprio perché non sono un racconto vero e proprio ma un rapido susseguirsi di parole chiave.
Il punto è capire perché Obama ha deciso di non usare la tecnica delle “narratives”. Non basta cercare la ragione nell’obsolescenza della parola chiave “comunista”: in fondo, avrebbe potuto semplicemente inventarne un’altra. Se non l’ha fatto è forse perché Obama davvero non crede alle “narratives”, ovvero potrebbe darsi che in fondo la non-narratività di Obama derivi dal fatto che alle “narratives” preferisce gli “arguments”, gli argomenti che servono a convincere un interlocutore della plausibilità delle proprie ragioni.
3. Il discorso narrativo si distingue dal discorso argomentativo per il fatto che le narrazioni sono truismi validi sempre e comunque mentre le argomentazioni devono essere dibattute nel merito.
Già qui si potrebbe notare un primo problema per Obama. In uno spazio politico dove l’avversario narra, non è né facile né efficiente argomentare. O meglio, opporre argomentazione a narrazione funziona per shock, ma lo shock, in genere, funziona appunto una volta sola. E, in effetti, non è impossibile sostenere che il successo discorsivo di Obama nel 2008 funzionò proprio per contrasto. Non pochi rimasero stupiti da un candidato che ai racconti opponeva gli argomenti.
Sarebbe però sbagliato pensare che il successo fu il semplice risultato di una scelta tattica. Nei mesi che seguirono l’elezione di Obama il neo-eletto presidente fece di tutto per trovare nei Repubblicani interlocutori con cui discorrere in modo responsabile.
Ma è stato proprio il loro reiterato rifiuto a causare l’attuale problema in cui si trova Obama. Se vuole essere rieletto, il Presidente deve smettere di dire che dialogherà con gli avversari in modo responsabile e iniziare anche lui a usare le tecniche narrative che servono a ispirare la propria base elettorale. Non si può in eterno raccontare di voler discutere con un muro.
Riuscirà “il primo Presidente di colore degli Stati Uniti d’America” a convincere gli americani di avere una visione politica oltre che a essere l’incarnazione di un sogno? Vedremo nel prossimo anno se Obama riuscirà a trasformarsi in un politico capace di esprimere una “narrative” convincente o se continuerà a rimanere un enigma per i suoi stessi elettori.
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