La Giordania rimane sinonimo di stabilità, anche grazie ai rapporti privilegiati a livello sia politico sia economico con l'Occidente

Nel contesto storico-politico del Medio Oriente contemporaneo, la Giordania rimane sinonimo di stabilità. Considerando gli stati limitrofi, gli avvenimenti e le dinamiche regionali, è quantomeno sorprendente che un piccolo regno (circa 90.000 kmq, meno di un terzo dell'Italia), scarsamente popolato (intorno ai 6 milioni, sebbene altri dati parlino ora di quasi 8 milioni, dato l'afflusso di rifugiati da Iraq e Siria), sia sopravvissuto sostanzialmente secondo l'originale assetto istituzionale post-coloniale.

Con la caduta dell'Impero Ottomano, la Gran Bretagna creò nel 1921 l'emirato di Transgiordania come mandato della Società delle Nazioni, senza che vi fosse alcun precedente autoctono per tale entità politico-amminstrativa. Il controllo del mandato fu assegnato ad un membro della famiglia Hashemita, Abdullah bin Hussein: gli Hashemiti provenivano però dall'Hijaz, nell'odierna Arabia Saudita, e restano quindi una dinastia in qualche modo d'importazione per le tribù beduine locali. Con l'indipendenza nel 1946 e la nascita di Israele nel 1948 si conclude la fase formativa del regno, con il massiccio arrivo di profughi palestinesi in Giordania (fenomeno che si ripeterà dopo la Guerra dei 6 Giorni nel 1967 con l'occupazione israeliana della Cisgiordania, fino ad allora sotto controllo di Amman). Tutto questo contribuì a creare una situazione in cui oltre il 65% dei cittadini giordani sono in realtà di origine palestinese. Questo evidente problema identitario sfociò nel 1970 nella principale minaccia alla sopravvivenza del regime Hashemita: alcune fazioni dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina tentarono di rovesciare Re Hussein, il quale, con il supporto delle tribù giordane indigene, da sempre spina dorsale dell'esercito e dei servizi di sicurezza, represse la rivolta palestinese in quella che fu a tutti gli effetti una guerra civile (il famoso 'Settembre Nero') che causò circa 20.000 morti.


L'appoggio occidentale (specie americano e britannico) alla monarchia ha fatto sì che la Giordania dopo il Settembre Nero si ponesse quale paese moderato nella regione in funzione prima anti-Sovietica e poi anti-Islam militante. La Giordania beneficia dunque di rapporti privilegiati a livello sia politico sia economico con l'Occidente: una serie di riforme in senso neo-liberale (specie durante il regno del figlio Hussein, Abdallah II) hanno reso la Giordania una delle economie più aperte e tra i mercati di più facile accesso a livello globale. Nel contesto regionale è affine ad economie del Golfo come Qatar e EAU per quanto riguarda la facilità d'impresa per investitori stranieri. Tutto questo ha contribuito a rendere il regno Hashemita relativamente prospero (classificato dalla Banca Mondiale come paese 'upper-middle income'), ed Amman tra le città più care del Medio Oriente.

L'economia giordana (Figura 1) sta attraversando una buona fase dopo le difficoltà della crisi del 2008-09.
Rimangono tuttavia problemi strutturali e macro-economici che fanno dubitare della sostenibilità nel lungo periodo del presente modello economico-istituzionale. In primo luogo, diseguaglianze, disoccupazione (ufficialmente al 12%, probabilmente molto più alta) e povertà (Figura 2) affliggono tuttora parte delle popolazione giordana con importanti riflessi sull'economia. Il regno è in costante deficit di bilancio e nella bilancia dei pagamenti (Figura 3). Tale deficit è finanziato sostanzialmente da prestiti e aiuti internazionali, in primo luogo americani, che ammontano all'impressionante cifra di 1,5 miliardi di dollari l'anno. A tutto ciò va aggiunto l'effetto destabilizzante che deriva dal notevole afflusso di rifugiati siriani e palestinesi.
Uno sviluppato ed efficiente settore terziario (in particolare banche e telecomunicazioni, oltre alla fiorente industria del turismo), importanti rimesse dei lavoratori giordani nel Golfo e una robusta industria di estrazione e lavorazione di fosfati e potassio non riescono a compensare i limiti geografici e naturali del piccolo regno: in primo luogo, una scarsità pressoché totale di altre risorse naturali, a partire dall'acqua e dal petrolio (Figura 4). Circa il 90% del territorio giordano infatti è desertico. Le coltivazioni (pomodori, cetrioli, limoni, olive, cereali) si concentrano lungo la dorsale montagnosa che corre da nord a sud, dove sono più frequenti le piogge e vi è la presenza di corsi d'acqua permanenti (fiumi Giordano e Yarmouk).

La Giordania importa circa il 96% del proprio fabbisogno energetico dai vicini arabi. Se prima del 2003 l'Iraq era il principale partner, ora l'Arabia Saudita fornisce a prezzi calmierati la maggior parte del petrolio necessario alla Giordania, che al momento può vantare una produzione giornaliera di soli 40 barili. Recentemente sono state però individuate importanti riserve di scisto, con l'introduzione dei processi estrattivi noti come fracking, che potrebbero cambiare radicalmente il quadro energetico del paese. Il governo ha stimato in 31 miliardi di tonnellate le riserve, e l'inizio di un'attività di un impianto energetico alimentato a petrolio scistoso è previsto per il 2017. (Figura 5). Altri progetti riguardano la costruzione di un impianto nucleare e un problematico accordo con Tel Aviv per l'acquisto di gas naturale dal giacimento israeliano Leviathan nel Mediterraneo al fine di diversificare l'approvvigionamento energetico.
Da ultimo, è bene ricordare come tutto questo si inserisca nel contesto delle Primavere Arabe (che hanno solo marginalmente toccato la Giordania), dell'avanzata dell'ISIS, della guerra civile in Siria, della cronica instabilità del vicino iracheno, e del conflitto Israelo-Palestinese.