La chiusura del cerchio sul dossier Tim non è avvenuta entro la fine del 2022 come in autunno avevano messo nero su bianco in una nota il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’Innovazione, Alessio Butti.
Già in campagna elettorale quella che poi è diventata la nuova compagine di governo – e in particolare il partito della premier Giorgia Meloni – aveva indicato come una conditio sine qua non il controllo pubblico sulla rete di Tlc. Dapprima si era ventilata l’ipotesi di lavorare su una rete unica (Tim-Open Fiber), per poi chiarire il focus con l’obiettivo di avere una rete “nazionale”, non per forza unica.
In una nota del Mimit di fine novembre si leggeva: «Il Governo intende promuovere un tavolo di lavoro che entro il 31 dicembre possa contribuire alla definizione delle migliori soluzioni di mercato percorribili per massimizzare gli interessi del Paese, delle società coinvolte e dei loro azionisti e Stakeholder, tenendo conto delle normative esistenti a livello nazionale ed europeo e degli equilibri economici, finanziari ed occupazionali».
La mossa di Giorgetti
Bisogna invece attendere fino al 10 agosto per avere il comunicato del ministero dell’Economia e delle Finanze con la notizia del memorandum of understanding con Kkr per prevedere «l’ingresso del Mef nella Netco nella percentuale fino al 20%» con «un ruolo decisivo del governo nella definizione delle scelte strategiche». Il comunicato si conclude con l’indicazione della necessità di un Dpcm.
In mezzo alle due date c’è stato di tutto: dalle dimissioni di Arnaud de Puyfontaine dal Cda Tim (e quindi all’uscita dal Consiglio del primo azionista Vivendi) alla scelta che il board ha fatto a favore dell’offerta Kkr per Netco (rete e Sparkle).
La discesa in campo del Mef segna comunque, inevitabilmente, un’accelerazione sul dossier. Con tante incognite, va detto. A iniziare dalla posizione di Vivendi. Dopo aver usato toni anche molto duri contro l’offerta ritenuta non congrua (i 23 miliardi di Kkr sono comunque lontani rispetto ai 31 indicati un anno fa dalla media company che fa capo a Vincent Bolloré) i francesi hanno chiuso le comunicazioni.
La carta assemblea straordinaria
A questo punto, del resto, possono solo farsi valere e far valere il proprio peso nel caso in cui volessero continuare a mantenere la propria contrarietà all’operazione. Con il 24,75% di quota Vivendi ha una sostanziale minoranza di blocco in una assemblea straordinaria. Certo, esercitarla in un'operazione che veda coinvolto anche il governo attraverso il Mef non sarebbe sicuramente una scelta semplice. Dall'altra parte (e anche se nessuno lo conferma) in Tim c'è chi vorrebbe scavallare l'assemblea straordinaria e affidare il placet finale all'operazione a un'assemblea ordinaria - che non necessiterebbe di maggioranza qualificata ma solo semplice sterilizzando il potere di interdizione di Vivendi - o anche solo a una delibera del Cda. Il rischio di battaglia legale (con una Vivendi che in passato guerreggiando con Mediaset ha mostrato di essere disposta a non risparmiarsi) sarebbe però altissimo.
A ogni modo nessuno può dire che il "no" non si trasformi in "sì" dopo la discesa in campo del Mef che, non a caso, è stata accolta con favore da Vivendi, come elemento nuovo per poter instaurare un dialogo «serio». Del resto per Vivendi potrebbe esserci, in termini di contropartita, la società dei servizi senza la rete (ServCo). La sostenibilità di questa società (debito, personale, rapporti con la Netco) può essere la variabile decisiva.
La deadline per Kkr
Di sicuro, il Mef non è interlocutore che si può derubricare così facilmente. E in fondo l’aver messo sul tavolo un MoU sa evidentemente di endorsement al progetto di Kkr. La tempistica ne rappresenta una conferma: perché firmare un memorandum a metà agosto con una deadline al 30 settembre concessa a Kkr per trasformare la sua offerta in vincolante?
Autunno caldo, dunque, sul versante Tim per un dossier che senza l’intervento del Mef forse si sarebbe avviato verso una fase di stallo. Non che ora si sia spianata la strada va detto. Ma senza MoU il percorso sarebbe risultato troppo più impervio.
In tutto questo, Cdp, azionista al 9,8% di Tim, non è riuscita (almeno, al momento) a entrare in partita. Alla sua offerta con Macquarie è stata preferita quella di Kkr. E per entrare nell’affare Netco - con una quota minima della società come da schemi al momento allo studio secondo indiscrezioni di mercato – con il fondo australiano la Cassa dovrà necessariamente fare i conti.
Open Fiber verso lo spezzatino
I rapporti fra i due azionisti di Open Fiber (60% Cdp e 40% Macquarie) hanno vissuto anche momenti di tensione nell’arco della prima parte dell’anno con il fondo che ha fatto capire di non essere disposto a vedere Cdp andare a sostenere lo sviluppo della rete Tim che si trova, nei fatti, a essere competitor di quella di Of. La soluzione, suggerita dalla stessa Macquarie, è quella di arrivare a uno spezzatino di Of: le aree nere al fondo australiano e quelle grigie e bianche di Open Fiber da far rimanere in capo a Cdp per poi confluire in Netco.
Facile a dirsi, meno a tradurre in pratica. C'è anche una tematica antitrust da considerare. Certo è che, mai come stavolta, per le tessere del puzzle sul tavolo si inizia a intravedere tutta la sequenza logica. Con, come detto, tutta una serie di incognite. Il 20% della Netco necessita di investimenti pubblici superiori ai 2 miliardi di euro. Da dove arriveranno queste risorse? Che ruolo avranno F2i e Cdp? E quale sarà la posizione di Macquarie e soprattutto di Vivendi?
Domande in cui si sostanzia l’autunno caldo di Tim. Con una Open Fiber che non se la passa bene ed è alla ricerca di un nuovo slancio e di riprendere quota dopo essere rimasta legata al pensiero di una possibile rete unica da almeno un anno e mezzo a oggi. E con un Cda Tim che si avvia verso la scadenza. Spostare troppo la palla in avanti significherebbe rimanere, giocoforza, con il cerino in mano. E se il tema è quello di tagliare il debito è difficile non passare da lì.
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