Il Giappone è un paese molto ricco che cresce poco, con una dinamica demografica negativa, e un gran debito pubblico. Il Giappone è il caso estremo dei problemi che devono affrontare i paesi sviluppati. La scelta del Giappone è stata quella di seguire una strategia “ultra-statalista”. Che questa politica sia o non sia una buona scelta è questione aperta.

1.  La trappola giapponese

La popolazione giapponese è invecchiata e continua a invecchiare. Il Giappone poi, a differenza degli Stati Uniti e in parte dell'Europa, è un paese mono etnico, ossia non ha immigrazione di gente giovane. Le pensioni saranno di conseguenza pagate solo dalla popolazione autoctona attiva, che è sempre meno numerosa.

  • O la produttività del lavoro sale moltissimo e una parte del guadagno di produttività si trasferisce ai sempre più numerosi anziani, oppure il sistema pensionistico non è in grado di pagare le pensioni, se non andando in forte deficit. Questo vale per i sistemi a ripartizione (in cui chi lavora mantiene chi è in pensione attraverso un organismo apposito, come è l'INPS nel caso italiano).
  • Per i sistemi a contribuzione (in cui i lavoratori versano al fondo pensioni una parte del loro reddito, che finisce soprattutto in titoli di Stato, e che viene reso nel corso del tempo quando sono pensionati), il problema sorge se i rendimenti del debito pubblico, che in Giappone sono molto bassi, non sono sufficienti per pagare delle pensioni decorose al numero crescente di anziani*.

Se la produttività – il valore aggiunto prodotto per occupato - non cresce, nel primo caso – quello della ripartizione - va sotto pressione il bilancio pubblico, nel secondo – quello del versamento ai fondi – ad essere in difficoltà è il debito pubblico, perché i fondi pensione - prima o poi - andranno alla ricerca di rendimenti maggiori all'estero. Per trattenere gli investimenti all'interno, il Giappone dovrà quindi alzare il rendimento offerto (e quindi il costo) del debito pubblico.

Detto in altro modo, il sistema – in assenza di crescita - regge fin tanto che lo Stato si indebita pagando degli interessi minuscoli ed i Giapponesi continuano a comprare il proprio debito sempre a rendimenti minuscoli. Se le cose non andassero in questo modo, sempre in assenza di crescita, le entrate fiscali verrebbero “mangiate” dalle pensioni e dagli oneri sul debito.

2.  I conti pubblici del Giappone

È difficile districarsi fra le statistiche giapponesi, e si fa fatica a capire quanto costa il debito perché nei documenti di contabilità nazionale è contato sia il pagamento degli interessi sia il debito a scadenza. Dal documento Japan's Fiscal Condition di gennaio 2013 si vede per esempio che il debito ha un costo intorno al 1,5% e che le uscite per la sicurezza sociale sono in forte crescita.

Un conto più semplice ma utile è quello che mette in relazione il debito con le entrate fiscali. Il debito lordo giapponese è circa il 250% del PIL, e le entrate fiscali sono circa il 30% del PIL. Il rapporto è perciò intorno alle otto volte. Lo stesso rapporto in Italia è meno di tre volte.

Secondo altri conti, il pagamento degli interessi ammonta a circa il 15% delle entrate fiscali. Perciò, se il debito costasse il doppio – quindi il 3% - le spese per interessi sarebbero pari al 30% delle entrate fiscali. In Italia il costo del debito è pari a circa il 4% del PIL, mentre le entrate fiscali sono appena inferiori al 50% del PIL. Il rapporto è quindi inferiore al 10%.

3.  Alla ricerca di una via d'uscita

Partiamo da quello che si vuole evitare. Si vede che lo Stato, a causa della modesta crescita di un'economia con una popolazione che invecchia, ha spese crescenti ed entrate poco “vispe”. Se il debito che scade e quello di nuova emissione non venissero rinnovati alle aste per l'insufficienza di sottoscrittori, ecco che interverrebbe la Banca Centrale del Giappone. Il fenomeno potrebbe ripetersi, e la Banca Centrale continuerebbe ad accumulare debito pubblico. Potremmo immaginare che la Banca Centrale renda al Tesoro le cedole e dunque che avremmo un debito crescente a costo zero. Avremmo, alla fine, un debito pubblico talmente grosso che la base fiscale non sarebbe più sufficiente a garantirlo. Ecco il punto di non ritorno: avremmo un Tesoro insolvente, e i titoli di Stato che reggono solo perché sono rinnovati alle aste dalla Banca Centrale.

C'è una via d'uscita al punto di non ritorno?  Si, ed è la cosiddetta Abenomics - dal nome del primo ministro Shinzo Abe – che così si articola: 1) la Banca Centrale compra le obbligazioni messe in vendita dal Tesoro; 2) il Tesoro finanzia agevolmente il non modesto deficit, perché non deve preoccuparsi se i privati possono decidere di comprare una quota modesta del debito pubblico; 3) si dichiara che si cercherà di far salire il livello generale dei prezzi del 2%, e perciò si “spaventano” i detentori di obbligazioni, che oggi ricevono un rendimento di molto inferiore al 2%; 4) i detentori di obbligazioni cercheranno così dei rendimenti maggiori andando all'estero, e, se lo fanno in massa, ecco che lo yen si svaluta; 5) con lo yen che si svaluta sono favorite le imprese che hanno gli impianti dislocati in Giappone, e perciò aumenterà il volume dei loro profitti, ciò che alimenterà l'autofinanziamento.

La politica economica ultra espansiva è volta a rilanciare l'economia attraverso il deficit che si finanzia col debito sottoscritto dalla Banca Centrale. “Il debito caccia il debito” non è un paradosso, ma un ragionamento macro economico: esso è basato sull'idea che la spesa pubblica riesce a spingere l'economia oltre la crescita del debito – ossia, il debito sale, ma si riduce in percentuale del PIL**. Non abbiamo però a che fare solo con una opzione di politica economica, ma anche con una opzione politica. Il costo politico dell'austerità è, infatti, elevato. Sorge perciò la tentazione di maritare una politica fiscale molto espansiva con una politica monetaria molto accomodante***. L'idea è che, una volta che l'economia sia ripartita, le riforme si faranno senza troppe resistenze. Infatti, nella strategia di Shinzo Abe, una volta che l'economia sia ripartita, si riformeranno i mercati del lavoro e dei prodotti.

4.  Quale la lezione?

Che la politica economica ultra espansiva sia o non sia una buona scelta è questione aperta e apre interrogativi che vanno oltre i confini del caso nipponico. A questo proposito, sulle testate del Centro Einaudi si è aperta una discussione sulle recenti scelte dei governi in materia di politica economica. In un primo post - Opzioni di politica economica del 8 ottobre 2015, si sintetizzano i quattro filoni di pensiero che sono dietro la politica economica. In un secondo post - Ideologia ed economia del 9 ottobre 2015, ci si domanda chi guidi la politica economica, e si conclude affermando che a guidare la politica economica non sono solo le idee e i decisori, ma le condizioni storiche, le quali fissano i termini di convenienza per l’agenda politica con cui il decisore deve fare i conti. In un terzo post - Un referendum svizzero del 16 ottobre 2015, si chiariscono le ragioni per le quali delle decisioni drastiche non dovrebbero venir prese. Infine, nella quarta ed ultima riflessione - Le scelte di politica economica hic et nunc del 16 ottobre 2015, si va nella direzione opposta, mostrando come le decisioni drastiche, anche se impopolari, sono necessarie. Allo stato dei fatti si hanno quattro opzioni: quella ultra keynesiana, quella keynesiana normale, quella “di mezzo”, e quella austriaca. La prima vuole un ritorno della spesa pubblica in un contesto di minori diseguaglianze, la seconda vuole un ritorno della spesa pubblica, la terza un ritorno della spesa pubblica ma combinata con riforme sul lato dell'offerta, la quarta propone una “de-finanziarizzazione” dell'economia combinata con il prevalere delle politiche dell'offerta. Come sempre accade, esistono elementi di verità in ognuna delle opzioni. Per rendere agile il testo non le si definiscono qui, ma si rimanda alle note di origine. La domanda vera è: quale, alla fine, prevarrà nell'arena politica?

Note

* Per un'analisi dei fondi pensione giapponesi: http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/ricerche/3411-le-pensioni-dei-giapponesi.html.I numeri su chi detiene il debito giapponese mostrano l'entità del travaso fra settore privato e la banca centrale che si potrebbe avere in Giappone: http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/ricerche/4045-chi-detiene-il-debito-pubblico.html.

** Ecco il punto di vista dei giapponesi. Secondo Richard Koo – capo economista di Nomura Research - il Giappone non è entrato in depressione negli anni Novanta, ma ha soltanto sperimentato una crescita nulla, perché aveva capito dov’era il problema, che possiamo etichettare come lo “sciopero del debitore”. Nessuno in Giappone voleva del credito, qualunque fosse il tasso d’interesse praticato, perché doveva rendere il troppo debito che aveva cumulato. Nel caso giapponese erano le imprese non finanziarie a non volere il credito, e, se nessuno vuole il credito l’economia non funziona. In questo caso, non sono i tassi, per quanto bassi, che possono ravvivare la richiesta di credito. La politica monetaria dunque è spiazzata, ossia non basta mantenere bassi i tassi di interesse praticati dalla banca centrale. Resta la spesa pubblica, per salvare le cose: la s’incrementa fino ad assorbire la riduzione di quella privata. I finanziamenti che andavano al settore privato ora vanno a quello pubblico. Il fabbisogno finanziario dello Stato non spinge al rialzo i rendimenti delle obbligazioni, perché il settore privato non chiede più, fintanto che deve ridurre il proprio debito, capitali al mercato. Koo sostiene che non bisogna tentare di ridurre il deficit pubblico fino a quando non si è sicuri che l’economia torni a chiedere credito. Se si cerca di controllare prima del tempo il deficit pubblico, contando che al minor credito chiesto dal settore pubblico corrisponda un maggior credito chiesto dal settore privato, si rischia di peggiorare le cose – come avvenne in Giappone nel 1997 e nel 2001. E dunque le politiche ultra espansive sono benvenute, finché non riparte il credito.

*** Nel programma di Corbin – il nuovo leader del Labour Party - le maggiori imposte servono a finanziare in misura modesta la maggior spesa pubblica. Quest'ultima è incrementata grazie agli acquisti della Banca Centrale. Abbiamo così a che fare con una spesa pubblica in deficit non finanziata dai privati, né attraverso le imposte, né attraverso la sottoscrizione di obbligazioni. Un po' come avveniva in Italia fino al 1981, quando fu (finalmente) deciso il “divorzio” fra la Banca Centrale ed il Tesoro: http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/commenti/4195-il-qe-per-il-popolo.html