Le liberalizzazioni sono il primo grande tema della cosiddetta “fase due” del governo Monti. Una volta cercati di stabilizzare i conti pubblici (numeratore del rapporto debito PIL), si cerca di affrontare il problema che affligge l’Italia da almeno due decenni, la scarsa crescita (per far aumentare il PIL, ossia il denominatore del rapporto). Le misure per favorire la crescita sono diverse e tutte ampiamente note: diminuzione del carico fiscale (e quindi della spesa pubblica), semplificazione normativa, miglioramento del sistema giudiziario, liberalizzazioni.

 

Venerdì scorso (20 gennaio 2012) il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto-legge sulle liberalizzazioni. Cominciamo dunque la nostra analisi da queste ultime, di cui ovviamente si sta facendo un gran parlare. Cercheremo di analizzare l’origine del problema e l’importanza che un intervento in questa direzione può assumere da un punto di vista economico. Infine, siccome questo tipo di politiche va a toccare interessi costituiti e provoca inevitabilmente critiche, cercheremo di discuterle per dimostrare come il mercato possa, in molti casi, offrire una soluzione alle obiezioni sollevate.

L’origine del problema

Un mercato in concorrenza perfetta assicura, in linea generale, la massimizzazione del benessere complessivo della collettività (produttori e consumatori). Tuttavia, i mercati raramente si trovano in una condizione di concorrenza perfetta: le principali deviazioni avvengono principalmente in due occasioni.

In primo luogo, quando i produttori di un determinato bene colludono e decidono di ridurre la quantità prodotta in modo da poter vendere ad un prezzo maggiore. Ciò avviene più facilmente in presenza di mercati più concentrati, con barriere all’entrata elevate e caratterizzati da un’elevata omogeneità dei prodotti. Per fronteggiare questo tipo di problematica occorre disporre di una regolamentazione efficiente a tutela della concorrenza e di efficienti autorità antitrust.

Tuttavia, anche in assenza di un intervento del regolatore, la collusione tra imprese non è facile. Ad esempio, come dimostrato da Mancur Olson nel classico economico “The Logic of Collective Action: Public Goods and the Theory of Groups” (Harvard University Press, 1965), le condizioni per la produzione volontaria di un bene collettivo sono piuttosto stringenti: il gruppo deve essere sufficientemente ristretto, meglio se con un membro nel ruolo di attore predominante, con un elevato interesse alla produzione del bene. Inoltre, i prezzi devono essere facilmente osservabili in modo da consentire l’individuazione tempestiva delle deviazioni; altrimenti qualcuno approfitterebbe dei prezzi più alti determinati dalla presenza del cartello senza rispettare, egli stesso, i limiti quantitativi imposti dallo stesso (cosiddetto “problema del free riding”).


 

Occorre notare che, anche quando il cartello rimane solido, spesso emergono soluzioni alternative, quali la comparsa di nuovi produttori o di beni alternativi. Prendiamo il caso di uno dei cartelli più solidi e duraturi, l’OPEC. L’unione dei paesi produttori di petrolio aveva tutti i connotati per avere successo: pochi aderenti, alcuni con un interesse maggiore di altri (in quanto produttori di maggiori quantità), prezzi facilmente osservabili. Nonostante che il cartello esista e abbia ancora una sua influenza, a partire dagli anni Settanta si sono però avviati diversi meccanismi “di difesa” che ne hanno limitato il potere: ricerca di riserve petrolifere in altri paesi, investimenti per l’utilizzo di energie non basate sul petrolio.

In alcuni casi, i cartelli fanno molta fatica a costituirsi e ne farebbero altrettanta per sopravvivere. Prendiamo l’esempio dei tassisti. In assenza di divieti, a fronte di un accordo tra un gruppo di essi per mantenere i prezzi al di sopra del livello concorrenziale, potrebbero in un brevissimo arco di tempo entrare sul mercato nuovi operatori in grado di riportare l’equilibrio alla situazione di concorrenza perfetta. In questo caso, l’unica modalità con cui il cartello può sopravvivere è quella di ottenere un riconoscimento legale e quindi ottenere una regolamentazione che imponga, per legge, il rispetto delle condizioni desiderate dai membri del cartello stesso.

Quando ciò avviene, le soluzioni e i meccanismi di contrasto sono molto più difficili da attuare: se lo stato impone di acquistare un determinato bene da determinati attori a determinate condizioni, è più difficile che il mercato possa reagire offrendo soluzioni alternative. È da qui che nasce il problema che l’Italia sta affrontando oggi. Esistono troppi cartelli che sopravvivono grazie alla presenza di una normativa statale che ne garantisce la sopravvivenza, provocando, di fatto, un trasferimento di benessere dai consumatori ai produttori e determinando una perdita di benessere complessivo.


 

 

Perché è importante liberalizzare?

Analizzata l’origine del problema, cerchiamo di capire perché è importante rimuovere almeno in parte quelle regolamentazioni che “bloccano”, in troppi settori, l’economia italiana.

La prima ragione economica per ritenere importanti le liberalizzazioni è costituita proprio dalla perdita netta di benessere generata dalle restrizioni a prezzi/quantità. Oltre a trasferire parte del benessere dai consumatori ai produttori, i limiti imposti dalle regolamentazioni fanno si che il benessere totale diminuisca. Può tuttavia essere dimostrato come, in molti casi, questa perdita di benessere non sia eccessivamente elevata. Ciononostante, vi sono altri motivi che giustificano l’enfasi sul processo di liberalizzazione del sistema economico.

L’efficienza allocativa è uno di questi. Le barriere all’entrata fanno sì che l’offerta in un determinato settore non si adegui in maniera ottimale alla domanda, ma che lo faccia solo in modo parziale e in un arco temporale dilatato. E le tariffe imposte fanno sì che i prezzi perdano quella funzione di segnale lanciato dal mercato per indicare scarsità o abbondanza nella fornitura di un bene. Pertanto, nei settori liberalizzati, le quantità prodotte si adattano velocemente all’offerta; in quelli non liberalizzati si adattano invece solo in maniera molto imperfetta (ad esempio con l’emissione periodica di nuove licenze).

Un altro aspetto importante è costituito dal sistema di incentivi. In un mercato non regolamentato, ciascun produttore viene ricompensato per il valore marginale che la sua attività apporta all’economia. A fronte di scarsità di un determinato bene, si creeranno gli incentivi affinché nuovi operatori affluiscano al settore. In un mercato regolamentato, la scarsità dell’offerta è strutturale e quindi la remunerazione per l’attività maggiore rispetto a quello che sarebbe in assenza di vincoli. Gli incentivi non spingono perciò a indirizzarsi verso i settori più produttivi, ma a lottare per acquisire rendite di posizione (rent seeking). Ecco quindi che un genitore potrebbe essere più propenso a fornire disponibilità finanziarie al figlio per comprare una licenza di taxi piuttosto che investire soldi nella sua formazione (lasciando il mestiere di tassista a chi sarebbe disposto a farlo anche per un compenso minore). Oppure, un giovane figlio di avvocato potrebbe essere incentivato oltremodo a proseguire nella professione, anziché diventare, ad esempio, un buon manager. Sommate, tutte queste distorsioni rendono il sistema economico nel suo complesso scarsamente efficace.

 

Infine, nei settori pesantemente regolamentati la qualità dell’offerta verso il consumatore è spesso meno soddisfacente. Vi è meno differenziazione nelle modalità di erogazione del servizio. Per controllare gli operatori ed evitare deviazioni unilaterali, spesso viene imposto un servizio standardizzato. E ci sono meno incentivi all’innovazione, perché non se ne potrebbero comunque internalizzare i benefici.


 

Perché non bisognerebbe liberalizzare?

Le proposte di liberalizzazione vengono spesso seguite da critiche e distinguo, sollevati solitamente dalle categorie interessate.

La critica più comune riguarda la necessità di avere barriere all’entrata per garantire la qualità del servizio, perché il consumatore non conosce e non è in grado di valutare la qualità del servizio offerto (asimmetria informativa). Si tratta di un argomento debole sotto due punti di vista.

Da un lato è difficile stabilire a priori quale sia il livello di qualità minimo accettabile. Dall’altro è difficile sostenere che i criteri per l’adesione a un albo o per l’acquisizione di una licenza diano effettive garanzie di qualità. L’esame di abilitazione iniziale, per quanto selettivo, non garantisce che il professionista si aggiornerà e sarà in grado di mantenere un livello di eccellenza lungo tutta la carriera (anche se si possono imporre obblighi in termini di formazione continua). Inoltre, per alcune categorie (vedi tassisti e farmacisti), l’acquisizione di una licenza è legata prevalentemente alla capacità/disponibilità a sostenere il costo di acquisizione della licenza stessa, più che al superamento di una specifica selezione. Può così capitare, ad esempio, che ottimi laureati in farmacia vengano espulsi dal mercato da laureati non di per sé migliori, ma in possesso della licenza.

Inoltre, il mercato offre soluzioni alternative che, per quanto imperfette, non è escluso che funzionino meglio rispetto alle barriere all’entrata poste dagli ordini professionali. Il tema delle asimmetrie informative è ben noto in economia ed è stato ampiamente studiato. Già il primo articolo che apriva la strada a questo filone di ricerca, il famoso “The Market for 'Lemons': Quality Uncertainty and the Market Mechanism” di G.A. Akerlov (Quarterly Journal of Economics, 84, 3, 488-500), indicava alcune potenziali soluzioni. Tra queste, la possibilità di lanciare segnali sulla qualità del servizio (un avvocato laureato a pieni voti e con molti riconoscimenti professionali trasmetterà un segnale positivo al potenziale cliente), la possibilità di creare brandche garantiscano un livello di qualità elevato (si pensi a un grande studio professionale che per tutelare il proprio nome recluta solo professionisti molto capaci), o di trasferire il rischio della bassa qualità a terzi (tramite garanzie o assicurazioni contro eventuali danni dovuti alla bassa qualità del servizio).

 


 

Il secondo rilievo che viene sollevato contro le liberalizzazioni riguarda l’effettiva necessità di aumentare l’offerta. Esistono già troppi avvocati/commercialisti/tassisti in circolazione, quindi è inutile liberalizzare, viene spesso sostenuto.

Si tratta di un’argomentazione evidentemente fallace. Se l’offerta è effettivamente superiore alla domanda, liberalizzare non avrà alcun effetto; viceversa, se la liberalizzazione aumentasse l’offerta, avremmo la dimostrazione che lo status quo pre-riforma era sub-ottimale. Quello che potrebbe accadere, in realtà, è paragonabile a ciò che accade in qualsiasi settore non regolamentato: gli operatori marginali, che operano con costi troppo elevati o forniscono un servizio di qualità bassa potrebbero essere espulsi dal mercato a seguito all’ingresso di nuovi concorrenti. È chiaro che questo meccanismo non può che apportare benefici netti alla collettività.

Infine, le liberalizzazioni pongono lo stesso problema che pone qualsiasi altra riforma che tocchi diritti in qualche modo acquisiti. Se liberalizzo un settore dopo che gli operatori hanno sostenuto i costi fissi per potervi operare, genero una perdita in capo agli operatori stessi. La teoria economica ci dice, però, che il costo fisso per entrare a far parte della categoria protetta non può essere stato maggiore al surplus che viene trasferito, grazie alla regolamentazione, dai consumatori ai produttori. Da un punto di vista collettivo rimane quindi vantaggioso liberalizzare: semmai possono essere pensati strumenti di compensazione per gestire, laddove si ritenesse necessario, la fase di transizione verso il libero mercato.